Chi, almeno una volta, non ha avuto la fuggevole sensazione che molto tempo fa, in un’epoca lontanissima, ci sia stata narrata una storia che ora perennemente ci sfugge? Cos’era, quella storia? Chi la raccontava? Perché la conoscemmo e ora la ignoriamo? Dove dovrei cercare per ritrovare ciò che ho perduto?[1]
A molti lettori il nome di Pamela Lyndon Travers, all’anagrafe Helen Lyndon Goff, non dirà niente; eppure il personaggio letterario da lei inventato negli anni Trenta, Mary Poppins, ha accompagnato l’infanzia di moltissimi bambini dell’ultimo secolo. Venuta al mondo nell’ultima estate del XIX secolo in Australia da due coloni irlandesi, la Travers è stata la prova vivente dell’esistenza di quella che potremmo definire la memoria del sangue, atavica essenza che scorre nelle vene e che pesca dagli abissi più profondi dell’inconscio collettivo del genio della stirpe — in questo caso, quella gaelica — una conoscenza che riguarda molto di più l’ambito del Mito che non quello della psicologia stricto sensu. Proprio al mondo sommerso del Mito e del Folklore la Travers si dedicò durante l’intera sua vita, con una passione raramente riscontrabile persino negli “esperti del settore” — antropologi e storici delle religioni — più competenti: a darne memoria è la raccolta di saggi What the Bee Knows. Reflections on Myth, Symbol and Story, pubblicata per la prima volta nel 1989 e finalmente giunta nelle librerie italiane grazie ai tipi di Liberilibri, con il titolo La sapienza segreta delle api (2019).
Fin dall’infanzia trascorsa in Australia si fa breccia nel cuore della giovane Helen/Pamela l’impressione che esista un mondo nascosto dietro a quello visibile e sperimentabile con l’utilizzo dei cinque sensi ordinari; intuizione, questa, che permise al suo daimon — o alla sua ghianda, direbbe James Hillman[2] — di manifestarsi in tutta la sua gaelicità sin da subito, prima ancora di diventare un’affermata autrice letteraria. «Nulla era più sicuro, in cuor mio» — confessa in prima persona[3] — «del fatto che gli alberi avessero una propria vita frenetica e comunicativa, che si stoppava — dopo un ben preciso segnale — quando apparivo io. Me lo sono portato sempre dietro, questo senso di vita segreta dei boschi, una vita che si ritrae al minimo suono di passo umano».
È proprio questa visione innata, contenuta nella memoria del sangue della giovane Travers, a condurla giovanissima in Irlanda (quel «luogo dell’anima» che «gli antichi canti chiamano Inis Fàil, ovvero Isola del Destino»)[4] e poi in Inghilterra, dove conoscerà personalmente e stringerà rapporti di sincera amicizia e reciproca ammirazione con alcuni degli alfieri del cosiddetto Celtic Revival («Rinascimento Celtico»), William Butler Yeats e soprattutto George William “AE” Russell. Fu quest’ultimo a “formarla” come scrittrice, risvegliando in lei l’anima più profonda che attendeva di sbocciare, con insegnamenti che ben sapeva che essa avrebbe saputo comprendere intuitivamente: «Amiamo soltanto ciò che ci è intimo, e ciò che ci è intimo non può essere perduto. […] Affinché l’adulto possa ristrutturare se stesso attraverso una storia, è necessario porre in essere un determinato processo nel quale egli deve intenzionalmente far rivivere ciò che in origine ha preso vita nel flusso del suo sangue».[5] «Ciò che è tuo, a te verrà».[6]
Da ciò, la differenza ontologica tra «mondo primario» e «mondo secondario», Mito e Logos, realtà atemporale — e, dunque, perenne — e artificio culturale: «il mondo primario è quello che non è mai stato inventato, ma venne a essere insieme al fluire del nostro sangue, eredità di quegli autori che, stando a Blake, si trovano […] nell’eternità. Tutto il resto è artificio umano o […] “subcreazione”, mondo secondario. […] Ma il mondo primario […] non potrà mai abituarsi a un clima artificiale, fatto dall’uomo. Per esistere, necessita di quanto all’uomo non è dato creare — la terra con la totalità dei morti quali suo concime, la pioggia che ogni giorno scende, le stagioni, il farsi sera, il silenzio — e un orecchio che non oda altro pulsare che quello del proprio sangue. Ciò che conta è che a noi [queste storie] sono state narrate — a noi feriti come lo è la volta del cielo, e dunque con un medesimo bisogno di conforto».[7]
La sapienza arcaica del Mito e delle Fiabe — che l’autrice definì la «sapienza segreta delle api», in quanto «nelle Highlands scozzesi, si tramanda di “chiedere alle api ciò che un tempo sapevano i druidi”»[8] — sembra effettivamente sgorgare istintivamente dall’animo della Travers, quasi che, nel «viaggio esplorativo che la scrittrice compie nella propria psiche e, attraverso di essa, nella psiche collettiva»,[9] si possano intravedere gli indizî della reincarnazione animica di un’antica sacerdotessa celtica: «I segreti delle rune, le pietre megalitiche, quel misterioso processo che definiamo linguaggio» — scrive[10] — «ci scorrono nel sangue, testimoniati, enigmaticamente ma autenticamente, da quegli oracoli che sono i miti, i simboli, le tradizioni, le parabole, le fiabe, i rituali, le leggende. […] La natura, se è natura fino in fondo, cela in sé il soprannaturale e ogni percezione potrebbe dirsi extrasensoriale, in un certo qual senso. […] Come un’ape potrebbe raccontarvi se sapesse parlare, tutto ciò ci dice forse che nulla è davvero conosciuto sinché non è conosciuto organicamente.». Con queste premesse, in questi brevi saggi, la Travers testimonia «l’antichità atemporale di miti e fiabe»[11], poiché, come essa stessa vaticina, «se fu vero allora, sempre sarà vero: il tempo non può mutare ciò che non appartiene al tempo».[12]
È proprio l’atemporalità del mondo immaginifico del Mito, e di conseguenza la sua realtà perenne, a emergere di scritto in scritto, fungendo da trait d’union tra i vari saggi contenuti in questa preziosa raccolta. Parlando del «Tempo del Sogno» (Dreamtime) degli aborigeni australiani, l’autrice lo inquadra non come «un tempo in senso stretto, quanto [piuttosto come] un tempo privo d’ogni tempo; uno spazio senza spazialità; materia, spirito, vita e morte, il tutto, il sempre»;[13] per sottolineare poi che «il Sogno è un oggettivo Adesso, la perenne non-esistenza, dalla quale sorge l’esistenza» e che, «affinché ciò si realizzi, è necessaria una dimensione riservata al mito; affinché il mito esista è necessario uno spazio di sospensione tra un secondo e un altro. È in questo non-istante di veglia che l’uomo si trova in un rapporto intimo con il paradosso. Il passato, irreparabile e perduto, può essere riparato dal presente; la meretrice può essere vergine; il Nirvana e il Samsara sono uno; dal punto di vista della riva più lontana, questa è l’Altra Sponda. […] la roccia è oro che non sa di esserlo; e […], nell’oscurità del Kali Yuga, la luce caduta è rinnovata».[14]
Ne deriva che il mondo del Mito, in cui solamente è possibile sperimentare un’esperienza sacrale, come nella concezione eliadiana di «tempo sacro»,[15] è esterno al mondo del divenire e alla manifestazione spazio-temporale intesa in senso lineare: «L’Ignoto, essendo esso stesso vuoto, può essere avvicinato soltanto in istanti di vuotezza che la mente egoica confonde con il tedio e si affretta a colmare con sempre maggiori conoscenze. […] Solo in questo senso è dato pervenire alla pienezza, quella pienezza che la mente, con tutto il suo acume, non può neppure figurarsi. In questo modo, l’io sacrifica se stesso all’io, come fece Odino sull’albero di Yggdrasil, riuscendo a conoscere, senza conoscenza, tutto ciò di cui aveva bisogno».[16] Esattamente come viene detto nel mito di Odino che riceve la conoscenza sacra delle rune sacrificando la propria vista ordinaria presso la fonte di Mímir — iniziatore mitico che non casualmente ha il nome di «Memoria» —, «per ricordare, prima occorre dimenticare»; «per ascendere, occorre precipitare»;[17] «per essere trovato, hai bisogno di perderti».[18]
Nella concezione sacrale della Travers — in piena corrispondenza con quanto ci è stato trasmesso dall’antica tradizione norrena e celtica, nonché dalla dottrina platonica dell’anamnesi — le imprese dell’eroe narrate nei miti «non costituiscono tanto un viaggio di scoperta, quanto di riscoperta»; «l’eroe non è in cerca di qualcosa di nuovo, ma di qualcosa di antico, un tesoro perduto che deve essere ritrovato»: «e, nel ritrovare tale identità, nel raggiungerla, egli attende a quell’unico compito che costituisce il fine essenziale del racconto mitologico: la ricomposizione del mondo caduto».[19] Al principio vi è sempre una rottura, una ferita, un accadimento tragico che fa piombare il mondo — e l’uomo con esso — in un improvviso stato di entropia: «Non era così […] in Paradiso […]. Ma poi un angelo fece un segnale con la sua spada, instillando qualcosa di inaudito nei nostri petti, e noi cominciammo a muoverci su di una diversa armonia».[20] È proprio questo trauma originario, da cui prende piede la «Caduta» di biblica memoria, a rendere necessario un nostro percorso a ritroso, che ci possa condurre nuovamente alla fonte di luce del «Tempo del Sogno» da cui noi tutti proveniamo: «Noi crediamo […] di star compiendo il viaggio d’andata. Ma in realtà siamo sulla via del ritorno. E tale ritorno ci conduce nel luogo donde partimmo. Se risposte vi sono, queste ci trascendono. Le troveremo là, giunte prima di noi».[21]
Nondimeno questa ascensione speculare e contraria alla caduta nel mondo dicotomico della materia e del divenire può realizzarsi soltanto operando quella che Jung ed Eliade definirono coincidentia oppositorum, vale a dire mediante la ri-congiunzione dei contrari nella loro monolitica perfezione primeva: sebbene nel mondo fenomenico in cui viviamo «gli opposti bramanti l’uno l’altro, perennemente frementi di fondersi l’uno nell’altro — essendo ognuno parte dell’altro — debbono per sempre restare separati»,[22] pare che «il Bene […] nella vita come nelle storie, dev’essere pallido e senza colore», e che abbia «bisogno di essere sfiorato da ciò che è scuro per arrossire e conoscere se stesso».[23] «La mia antica domanda» — chiosa sibillinamente la Travers — «sempre ritorna: tutto è uno nella medaglia che, a un tempo, divide e connette? Da qualche parte, nella mia infanzia, c’è un luogo tra Nord e Sud dove tutti gli opposti si affratellano, dove il nero e il bianco si congiungono, dove la pecora bianca e quella nera riposano insieme, dove san Giorgio non ce l’ha col drago, e il drago è d’accordo nell’essere trucidato».[24]
Proprio dal riconoscimento della suddetta dottrina della coincidentia oppositorum deriva la valenza positiva, nella concezione dell’autrice, dell’«abisso del dolore», della violenza e della tragicità all’interno dei miti tradizionali, ed egualmente nelle fiabe moderne: come riassume Cesare Catà nell’introduzione a questa edizione italiana di What the Bee Knows, «una storia che non attraversi gli incubi non è una vera storia; una fiaba in cui non si mostri l’abisso del male non è davvero educativa, secondo la Travers. Il terrore va fissato negli occhi: a questo servono le fiabe»[25] — da cui la polemica che l’autrice innescò con Walt Disney, reo a parer suo di aver epurato la sua Mary Poppins dai lati maggiormente oscuri ed iniziatici. «Edulcorare il lato orrendo delle storie significa privare i bambini della conoscenza dell’Ombra e, con ciò, dei mezzi per affrontare l’orrore stesso della vita. Per questo Mary Poppins possiede qualcosa di inquietante e sinistro, di malinconico e oscuro: in lei è riposta la sapienza, meravigliosa e terribile, del regno magico»:[26] quella che fin dal titolo di questa raccolta di saggi la Travers definisce, allo scopo di metterne in luce il distacco ontologico da ciò che è umano, troppo umano, «la sapienza segreta delle api».
[1] P.L. Travers, “La sapienza segreta delle api”, ne La sapienza segreta delle api, Liberilibri, Macerata 2019, p. 9
[2] J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997 (The Soul’s Code, 1996)
[3] P.L. Travers, “La morte di AE, eroe e mistico d’Irlanda”, ne La sapienza segreta delle api, p. 149
[4] C. Catà, introduzione a P.L. Travers, La sapienza segreta delle api, p. XXII
[5] P.L. Travers, “Storie per bambini per adulti”, ne La sapienza segreta delle api, p. 105
[6] P.L. Travers, “La morte di AE, eroe e mistico d’Irlanda”, ne La sapienza segreta delle api, p. 153
[7] P.L. Travers, “Il mondo primario”, ne La sapienza segreta delle api, pp. 84-87
[8] P.L. Travers, “La sapienza segreta delle api”, ne La sapienza segreta delle api, p. 5
[9] C. Catà, introduzione a P.L. Travers, La sapienza segreta delle api, p. XIII
[10] P.L. Travers, “La sapienza segreta delle api”, ne La sapienza segreta delle api, pp. 8-9
[11] C. Catà, introduzione a P.L. Travers, La sapienza segreta delle api, p. XIV
[12] [12] P.L. Travers, “Semplicemente, entra in connessione”, ne La sapienza segreta delle api, p. 55
[13] P.L. Travers, “L’eredità degli antenati”, ne La sapienza segreta delle api, p. 176
[14] Ivi, pp. 181-182
[15] M. Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 2013 (Sacrul și profanul, 1957)
[16] P.L. Travers, “A proposito dell’Ignoto”, ne La sapienza segreta delle api, p. 187
[17] P.L. Travers, “La sapienza segreta delle api”, ne La sapienza segreta delle api, p. 19
[18] Ivi, p. 20
[19] P.L. Travers, “Il mondo dell’eroe”, ne La sapienza segreta delle api, p. 66
[20] P.L. Travers, “Fuori dal Paradiso”, ne La sapienza segreta delle api, p. 115
[21] P.L. Travers, “La via del ritorno”, ne La sapienza segreta delle api, p. 213
[22] P.L. Travers, “Lucifero”, ne La sapienza segreta delle api, p. 118
[23] Ivi, p. 123
[24] Ivi, p. 130
[25] C. Catà, introduzione a P.L. Travers, La sapienza segreta delle api, p. XXXII
[26] Ivi, p. XXXIII. «Oltre a quella di mediatrice e a quella di nutrice, vi è una terza funzione di Mary Poppins che è tipica delle fate delle fiabe tradizionali, ossia il suo potere soteriologico: la capacità di salvare, con il suo passaggio transeunte, gli esseri umani dalla catastrofe, grazie al ristabilimento di un ordine perduto, un ordo nel senso teologico del termine, ovvero una struttura del mondo» [Ivi, p. XXVI].
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Ophelia, John William Waterhouse, 1889