Marco Malvestio è un amico. Non ho intenzione di mentire al riguardo; o peggio: sminuire la nostra amicizia. Se esistesse una graduatoria degli amici, gli spetterebbe una pole position a cui sarebbe da aggiungere un ulteriore grado di distinzione, tipo premio della giuria, menzione d’onore, coppa volpi o altre mostrine emblematiche. Quindi, per prima cosa, da qui in avanti mi riferirò a lui chiamandolo semplicemente Marco. Non l’autore, non con il cognome, non in qualsiasi altro modo che possa dare una parvenza di estraneità tra di noi.
Se siete una tipologia di lettore che crede che il mondo della cultura sia indenne al potere delle affinità elettive e degli affetti, se preferite credere che la critica sia un esercizio privato di qualsiasi emotività, allora fermatevi qui. Se invece i limiti di ogni essere umano (voi compresi) e delle comunità sociali a cui appartiene non vi indignano in maniera paralizzante, allora possiamo entrare nel merito di questo articolo. Che scrivo, sia chiaro, non tanto per affetto – elogi e critiche personali con l’amico restano riservate – bensì per condividere la gioia di due esordi affascinanti; i quali concretano anche un traguardo futuribile per l’editoria italiana coeva.
Marco si è presentato a me prima come poeta – trovate alcune delle sue composizioni in rete o potete leggere Il sogno di Pasifae nella raccolta Hula Apocalisse (edizioni Prufrock, 2018) – poi come traduttore di poesia. Nei suoi lavori ho sempre amato l’eleganza dei versi in cui mischia riferimenti epici e dettagli contemporanei per creare immagini dissacranti. Ironia e fabula, insomma, mi sono apparse da subito due qualità della sua scrittura. Negli anni, Marco mi ha onorato della lettura di racconti sempre brillanti, ben articolati, con dialoghi di cui conservo memoria precisa tanto mi hanno coinvolto nell’avanzare della narrazione. Tra poche settimane sarà in libreria proprio una raccolta di racconti in cui saremo entrambi inclusi. È questo è il primo traguardo editoriale di cui devo rendere conto poiché, quando ho esordito io – un’epoca antica, in cui i social network facevano la loro comparsa in versione gamma e beta – il mantra di ogni editore chiosava: «In Italia non si leggono racconti». Laddove “leggono” vale prima per “pubblicano” e poi per “vendono”.
Il secondo mantra che attanaglia qualunque autore è quello della coerenza di genere. Bisogna che il pubblico ti riconosca, che empatizzi, come dire: va bene la sperimentazione, ok il valore dell’opera, ma prima di tutto elaboriamo una brand identity forte, adatta a imporsi su una nicchia del mercato editoriale. Ecco dunque che perfino un autore eclettico come Marco Malvestio deve domandarsi se un esordio su due canali editoriali – saggistica e romanzo – quasi in contemporanea sia il modo giusto di diventare autore.
Annette (Wojtek, 2021) è un articolato romanzo di formazione erotica, in cui un giovane protagonista – troppo facilmente sovrapponibile all’autore – illustra la storia di un’ossessione sempre più avviluppante per la pornostar tedesca Annette Schwarz, attiva dal 2002 al 2014 e appartenente, di fatto, all’ultima generazione di professioniste dell’industria porno prima dell’avvento delle piattaforme on line. «Così come Nabokov con Lolita ha scritto un libro violento sulla violenza (…), io scriverò un romanzo (a tratti) pornografico sul porno. Un romanzo, cioè, dove si cerchi di esaurire un argomento e lo si faccia senza paura di appropriarsi, a volte, del suo linguaggio, ma anche, se si vuole, senza l’esigenza di sovra-interpretare, magari col secondo fine di scandalizzare» scrive il protagonista. Così, Annette è costruito come una sorta di racconto-confessione che restituisce con disarmante onestà la pervasività culturale della pornografia, longeva quanto e più della religione – o meglio sarebbe dire: della superstizione – come questa intrecciata al pensiero e alle relazioni umane. La storia del giovane travet della letteratura, intrappolato nei limiti della rispettabilità, e la cronaca della ragazza spregiudicata che trova nell’industria pornografica l’opportunità di emanciparsi attraverso la totale libertà del corpo, si sovrappongono e si intrecciano inseguendosi fino all’epilogo risolutore. Ognuno di loro danza la propria vita sulle ali del desiderio: l’una per perdersi nell’empireo del piacere; l’altro per fuggire i propri limiti attraverso un’idolatria sempre più totalizzante. Conflitto e ineluttabilità caratterizzano il supplice e la sua dea: mentre Annette resterà fino all’ultimo – al netto di dubbi e insicurezze – signora indiscussa del proprio destino, al protagonista non resta altro che un tragico disvelamento pirandelliano allorché il suo idolo, abbandonando definitivamente l’olimpo del porno, segna uno iato incolmabile tra la libertà del corpo e le convenzioni della società. In uno sdoppiamento doloroso e perturbante, l’autore dà voce ai due antagonisti dell’adorazione, con la stessa ambigua forza con cui Euripide fa incontrare Penteo, re di Tebe, e Dioniso, dio generato dall’unione di Giove e di Semele, figlia di Cadmo, intenzionato a raccogliere proseliti cominciando proprio da Tebe, patria di sua madre. In Annette, il caos e l’ordine morale, il dio e il re – che non ha altro che la filosofia per opporsi all’ortodossia orgiastica e libertaria – prorompono in lotta nello stesso individuo: un giovane maschio adulto, che non trova appagamento nei modelli culturali e sociali dell’operaio culturale, gradino infimo nella scala borghese delle professioni intellettuali.
Rispettabilità e scandalo sono amanti di lungo corso; come del resto lo sono filosofia e pazzia. Non è a caso dunque, che il protagonista, nel tentativo di preparare il lettore a ciò che l’aspetta, cerchi paragoni assolutori come questo: «Ora, così come è chiaro che è idiota leggere Sade solo per le orge, è altrettanto idiota leggerlo solo per la filosofia».
Raccontare la fine del mondo (Nottetempo, 2021) è un saggio, potremmo dire, di “narrativa comparata” laddove includiamo nella “narrativa” ogni forma multimediale del racconto. Nelle pagine del saggio, le forme narrative imperniate su un diverso fattore capace di portare il genere umano verso la sua stessa estinzione – meglio: verso una “fine” drastica dell’equilibrio ecosistemico conosciuto finora – sono catalogate da un indice di cinque agenti apocalittici: atomo, virus, cambiamento climatico, piante ed estinzioni sono le categorie della narrativa impegnata a rappresentare la fine del mondo. Il sottotitolo del saggio è Fantascienza e antropocene e l’autore si spiccia prestissimo a rinnegarlo: antropocene, ci spiega, è un termine che «nasce da un certo senso di esasperazione, dall’idea che il termine che ancora si usava per descrivere l’era presente, l’Olocene, fosse inadeguato». Nel corso del saggio, l’autore offre alternative ben più complesse rispetto alla genericità narcisistica dell’Antropocene: era delle pandemie, piantagionocene, estinzione della biodiversità, età del post-umano. Quanto alla fantascienza, chiarisce subito che «non riguarda il futuro; usa il futuro come convenzione narrativa per rappresentare distorsioni significative del presente». La rappresentazione pentagonale del disastro ecosistemico, in cui l’essere umano è insieme terrorista e martire, permette di scandagliare il limite invalicabile della narrativa sul tema: la necessità dell’evento drammatico. La fine del mondo, sembra suggerire l’autore, è tema antitetico al suo stesso racconto, totalmente e tragicamente anti-narrativo, nella sua essenza così come nei suoi epifenomeni. Di fronte alla catastrofe della rottura degli equilibri planetari che garantiscono la vita così come la conosciamo proviamo una «spaventata meraviglia» di cui le narrazioni sulla fine del mondo sono un prodotto culturale. Un prodotto limitato, poiché alla base di queste rappresentazioni c’è la necessità di familiarizzare con l’esasperazione dei modelli socio-economici responsabili della catastrofe ecosistemica, ai quali l’essere umano non è in grado (o non vuole) opporre alternativa: «è più facile immaginare la fine del mondo che quella dell’insieme di cause materiali e costrutti culturali che ha generato l’Antropocene: un mondo in cui il livello dei mari si alza fino a inghiottire la Pianura Padana, l’Olanda, la Florida e il Bangladesh ci sembra più realistico (e più familiare, per dirla con Heise), ormai, di uno in cui smettiamo di consumare care e di fare affidamento dei combustibili fossili».
Pornografia e fine del mondo sono dunque i due temi, entrambi intrinsecamente anti-narrativi, con cui Marco Malvestio fa il suo ingresso in libreria. Annette e Raccontare la fine del mondo sono per me due lavori affascinanti, ognuno a suo modo. Insieme, acquistano la forza di un esordio imp(r)udente, che rinnova la voglia di Marco Malvestio di essere prima che un autore senza genere, un pensatore intersettoriale. La laurea in letteratura comparata e il suo percorso di ricerca sono, a tutti gli effetti, parte del modo in cui concepisce le arti narrative e la sua stessa opera. In occasione della sua presentazione a Brescia, abbiamo fatto una breve intervista, in cui ho voluto analizzare insieme a lui il valore del suo duplice esordio.
Annette e Raccontare la fine del mondo sono usciti a pochi mesi di distanza: il primo in giugno e il secondo a ottobre 2021. Nello stesso anno, possiamo dire che tu abbia esordito due volte, come romanziere e come saggista. Una casualità?
È una pura casualità, sì. Annette è stato scritto nel 2019, e accettato dall’editore nel 2020, più di un anno prima dell’uscita, mentre Raccontare la fine del mondo è stato messo sotto contratto e scritto tra il 2020 e il 2021. Trattandosi di due testi molto diversi (saggistica e romanzo) non ci è parso che rischiassero di farsi concorrenza. I tempi tecnici dell’editoria, comunque, sono notoriamente lunghi; queste cose succedono, e sarebbe stato difficile intervenire in ogni caso, con due editori diversi.
Come si presentano due volumi così peculiari in libreria: insieme o separatamente? Di fronte al pubblico, ti senti più a tuo agio come saggista apocalittico o come romanziere ambiguo?
Ho presentato i volumi insieme solo una volta (con te!), ma l’idea è stata del libraio. Non mi è dispiaciuto, perché questi libri ovviamente, almeno in una certa misura, si parlano; ma in generale mi è capitato di presentare Annette in contesti meno tradizionali, come una bella serata con il collettivo Inside Porn, dove abbiamo proiettato anche un film di Annette Schwarz; mentre Raccontare la fine del mondo viene richiesto in ambiti più “istituzionali” – aule universitarie, fondazioni, festival e simili. Più che dall’argomento, però, penso dipenda dal formato: è più facile parlare di un saggio, il pubblico ha più interesse per gli argomenti esposti in maniera diretta che non per le strategie ambigue della narrativa. Io poi mi sento a mio agio in entrambi i ruoli, non è che quando il dottor Jekyll smette di presentare il saggio esce fuori il signor Hyde e va a parlare di porno. Anche Annette, in fondo, è un romanzo che incorpora grosse dosi di saggismo, dunque parlarne permette di mantenere un tono “didattico” che in parte addomestica gli elementi più disturbanti del libro. Ma al netto di tutto questo, mi sembra che siano due prodotti che parlano a pubblici in fondo diversi, ed entrambi reagiscono positivamente a quello che gli racconto.
Questi due libri affrontano a modo loro ambiti della rappresentazione e della cultura globale oltre modo complessi e capaci di incidere nella vita di ognuno di noi. La rappresentazione della catastrofe climatica così come la costruzione dell’immaginario erotico segnano la formazione di ogni individuo. La cultura pornografica di Annette apparteneva al mondo analogico, mentre Raccontare la fine del mondo passa in rassegna i media contemporanei. Possiamo affermare che gli ambientalismi catastrofici sono un nuovo potente immaginario culturale globale, al pari della pornografia?
Assolutamente. L’immaginario fantascientifico della catastrofe informa il modo in cui noi pensiamo all’Antropocene – nel bene e nel male. Da un lato è un immaginario che mette la giusta enfasi sull’eccezionalità dei tempi che viviamo, dall’altro finisce per essere incapacitante (gli eventi intorno a noi sono tanto vasti e incomprensibili che non avrebbe nemmeno senso tentare di mitigarli) o consolatorio (il racconto post-apocalittico, in fondo, è un racconto di palingenesi). L’immaginario catastrofico della fantascienza lo troviamo al telegiornale, nell’attivismo ambientale… Per la pornografia è un po’ diverso. L’effetto della pornografia è più sottile, perché tutti ne fanno uso, influenza enormemente il nostro modo di rapportarci al sesso, di pensarlo, e di farlo, ma allo stesso tempo è qualcosa che sta fuori dallo schermo pubblico – che è, letteralmente, osceno. Il discorso pubblico sul porno di solito è in mano a chi cerca di condannarlo, e le sue rappresentazioni letterarie sono centrate o sul morboso o sull’ironia, entrambe cose che ho cercato di evitare. Ciononostante, la pornografia fa parte della vita di tutti, anche di coloro che non ne fanno uso: lo sviluppo e la diffusione dell’industria pornografica hanno modificato i confini di quello che si può e non si può dire, di quello che si può e non si può rappresentare. Ecco, il punto di contatto tra i miei due libri è questo: entrambi si occupano di forme dell’immaginario subdolamente pervasive.
La relazione che intercorre tra pornografia e letteratura è ben più antica di quella tra ecologia e romanzo. Nel primo caso, abbiamo autori che la saccheggiano ampiamente, non di rado per far risaltare, in modo antitetico, la raffinatezza dei propri temi e argomentazioni. Penso soprattutto a Carrère, che anche tu citi, da Facciamo un gioco a Yoga, passando per Il regno. Oggi scrittori come Amitav Ghosh e Safran Foer fanno appello alla comunità degli autori perché l’ambiente entri di diritto come protagonista nel romanzo contemporaneo. Credi che l’ecologia subirà la stessa strumentalizzazione della pornografia in letteratura?
No, penso che si assista a qualcosa di un po’ diverso: mentre è vero che, come dicevo sopra, il porno è evocato nella letteratura essenzialmente per non parlarne, per suscitare scandalo o riso, l’ecologia è invece spesso esibita come un distintivo per mostrare “l’impegno” di un testo. Ghosh auspicava una letteratura capace di pensare l’impensabile, ossia il cambiamento climatico, mentre la maggior parte delle eco-distopie usano il cambiamento climatico come sfondo a storie avventurose o drammi privati che definire tradizionali è un eufemismo. L’Antropocene richiede un cambiamento del modo di pensare la realtà, il nostro posto nel mondo e la nostra relazione con esso: quando viene costretto in storie prive di un vero sforzo immaginativo, viene inevitabilmente banalizzato.
È più difficile scrivere di pornografia o di ecologia?
Io non ho scritto di ecologia in senso stretto, ma delle sue rappresentazioni: che è in fondo il mio mestiere, quindi, difficile o no, si fa. La saggistica, poi, raffredda l’animo di chi scrive, mette una distanza tra sé e l’oggetto della rappresentazione. Scrivere di pornografia è difficile perché è stato fatto molto meno, almeno nel modo che interessa a me, e perché costringe a rendere pubblico qualcosa che invece di solito è nascosto – non solo la pornografia in sé, ma anche il rapporto che con essa ha chi scrive. Scrivere di porno mi ha sicuramente dato l’impressione di scoprirmi di più, ma in entrambi i sensi della parola: di ritrovarmi nudo, e di scoprire me stesso. Anche per questo penso ne valesse la pena.