Sono ormai anni che Enrique Vila-Matas smette di scrivere per continuare a scrivere. Il suo ultimo romanzo, Montevideo (Feltrinelli editore, traduzione di Elena Liverani), racconta di uno scrittore che ha pubblicato un libro sugli autori affetti dalla cosiddetta “sindrome del No”, chiamata anche “sindrome Rimbaud”, ossia un libro su chi ha scritto e poi smesso di scrivere. Il narratore di Montevideo dunque non scrive più, e a leggere questo romanzo in effetti si ha l’impressione che pure Vila-Matas, l’autore, non stia “scrivendo” il libro bensì che lo stia percorrendo. Tuttavia il suo passo è deambulante, a zigzag, tornando di continuo su pensieri e situazioni rimasti in sospeso e forse privi di soluzione e talora di senso, con uno stile vagabondo e divertito e a tratti sconcertante che fa sonore pernacchie ai concetti di trama e di narrazione classica. Enrique Vila-Matas è un grande passeggiatore e innovatore dell’arte romanzesca. «Mi lascio alle spalle gli attacchi contro il narrabile» scrive il narratore dopo la prima parte del romanzo, fra Parigi e Cascais, «contro il narrativo, contro il narrato, contro le trame.»
Come Il mal di Montano o Dottor Pasavento, Montevideo potrebbe essere considerato un fratellastro (maggiore) di uno dei suoi libri più emblematici, Bartleby e compagnia, in cui già affrontava gli scrittori che per un motivo o per l’altro avevano smesso di scrivere. Così in Montevideo il Bartleby e compagnia di Vila-Matas diventa il libro del narratore dedicato agli scrittori del No, quelli affetti dalla “sindrome Rimbaud” o dalla “sindrome Bartleby”, intitolato Virtuosi della sospensione, un’opera dalla cui influenza nefasta l’autore-narratore vorrebbe tanto liberarsi, visto che, avendo anch’egli smesso di scrivere, è diventato vittima del suo stesso libro. Da abile fingitore qual è, Vila-Matas gioca con la sua biografia e la sua bibliografia, conducendoci al punto di incontro fra realtà e fabulazione, una camera d’albergo dell’Hotel Cervantes di Montevideo, il luogo in cui Julio Cortázar, autore non troppo amato dal narratore, ambienta un proprio racconto, La porta condannata. Dietro una porta, a notte fonda, un bambino piange. Ma il bambino esiste davvero? Per Vila-Matas il bambino diventerà un ragno. Ma il ragno esiste davvero? E la realtà?
Tutto questo non ha senso. Montevideo è una storia di porte che non esistono e anche, soprattutto, di fantasmi, sia pure di fantasmi nascosti nei libri. Roberto Bolaño scriveva, recensendo Una casa para siempre (uno dei tanti libri di Vila-Matas non ancora tradotti in italiano):
«Ogni opera, ci dice Vila-Matas affacciandosi dalle pagine di questo libro, deve essere un rinnovato salto nel vuoto. Con o senza spettatori, ma un salto nel vuoto.»
Vila-Matas quindi salta ancora nel vuoto e capitombola a terra, si rialza, cade di nuovo, ride, si beffeggia, fugge. Il lettore è spiazzato, perché non bisogna aspettarsi coerenza da Montevideo. La magia di Vila-Matas è altrove: nel tono, nelle improvvisazioni, nella sua buffonaggine mai volgare né banale, nel gioco di citazioni spesso fasulle o mutate, negli autori e nelle opere che accompagnano i suoi romanzi (qui abbiamo amato soprattutto Antonio Tabucchi e un fugace accenno a Fleur Jaeggy) e da ultimo nell’instabile e forse impossibile rivelazione di qualcosa che esiste e che al tempo stesso non esiste. La realtà. La finzione. Una porta che non c’è e che tuttavia si apre. Da ultimo il salto nel vuoto che salverà i lettori che continuiamo a essere.
Copertina: dettaglio da Vilhelm Hammershøi, Die vier Zimmer, 1914.