Appena finito di leggere Abitare stanca di Sarah Gainsforth (effequ) entro su Twitter. Scrollo le ultime notizie, le battute dei miei amici, e mi imbatto nel solito messaggio: «Cerco disperatamente stanza a Milano, budget massimo 400, va bene qualsiasi cosa». Poco più sotto, un altro profilo posta una foto: un letto a una piazza e mezzo schiacciato tra due pareti, in quello che sembra uno sgabuzzino. La didascalia la riconosco anche senza guardarla: «Mercato immobiliare a Milano».
So già che la persona con budget massimo 400 riuscirà, se va bene, a trovare un posto letto in una camera condivisa, e che persino il letto incastrato nella tana costerà di più: però a quest’assurdità non ci si abitua – e non ci si deve abituare.
Il testo di Gainsforth, che attualmente vive a Roma, è un oggetto sfaccettato e multiforme: un reportage sulla situazione abitativa attuale e sulle politiche che hanno contribuito a formarla, una genealogia famigliare e un racconto personale del rapporto con lo spazio-casa, un excursus storico che spazia anche geograficamente, dagli Stati Uniti all’Irlanda, al Regno Unito.
Sempre di più stiamo perdendo il contatto con quello che è la casa: luogo degli affetti, della quotidianità, dove non è obbligatoria la performance. È lo spazio che si abita, la manifestazione esterna di quello che noi e le persone con cui eventualmente la condividiamo siamo. Nel corso dell’ultimo secolo l’esaltazione dei benefici della proprietà ha portato a considerare la casa invece come una merce, fino a un totale distacco dalla sua funzione originaria, e dalla stessa materia. La casa è un bene finanziario, e questo cambio di paradigma comporta conseguenze catastrofiche – come scrive Gainsforth, «il problema della casa non riguarda solo “gli ultimi”: riguarda una visione di società» – basti pensare all’esplosione dei mutui subprime che ha causato la crisi del 2008.
La storia della proprietà è una storia costellata di violenze: Gainsforth, la cui famiglia ha origini irlandesi, ricostruisce i vari passaggi che ha vissuto l’Irlanda sotto l’occupazione inglese, quando le stesse terre non appartenevano a chi le lavorava, ma erano già oggetto di una speculazione ante-litteram dal Paese al di là del mare. Eppure, il mito della proprietà ha finito per creare una sovrapposizione con il concetto di sicurezza, banalizzando e ignorando le radici di ogni problematica sociale: solo se possiedi una cosa ne hai cura, come se una comunità non potesse prendersi sulle spalle la responsabilità di uno spazio pubblico. Nel frattempo, i costi relativi agli affitti superano il 40% del reddito di un singolo individuo, mentre 650.000 persone in Italia sono in attesa dell’assegnazione di un alloggio nelle case popolari.
Già autrice di AirBnb – Città merce, Gainsforth torna qui sul tema della cannibalizzazione dei centri storici, ormai trasformati nella versione nostalgica di quello che erano, a uso e consumo esclusivamente dei turisti. Le case dei centri sono ora adibite a spazi per affitti a brevissimo termine, con prezzi gonfiati oltre ogni misura: gli abitanti si spostano verso l’esterno, dove vere e proprie opere di gentrificazione dei quartieri periferici isolano ulteriormente le persone che abitavano già quelle zone.
La “risanificazione” delle aree cittadine che viene sponsorizzata come la “restituzione” di un luogo alla collettività finisce spesso per offrire nuovi fianchi alla privatizzazione. Lo Scalo di Porta Romana a Milano, per citare un esempio di città che si sta sbriciolando sotto questa spinta, è stato venduto a un Fondo di investimento immobiliare che ha tra i suoi partecipanti Prada Holding, e sono in corso i lavori per il Villaggio Atleti per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026.
Gainsforth riporta anche il caso del quartiere San Lorenzo di Roma, dove associazioni come Retake hanno riutilizzato i codici tipici dell’espressione artistica dal basso, come la street-art, per cancellare l’identità specifica dell’area e renderla accettabile, appetibile a chi ha tutt’altra disponibilità economica, inseguendo quel concetto pericolosissimo per una società che è quello del fantomatico decoro. Mantenere alta l’attenzione di fronte a queste operazioni assume un ruolo vitale, nel momento in cui ci viene chiesto invece di affidarci a un sistema sempre più escludente.
All’analisi dei processi legislativi, ai dati e alle conversazioni con urbanisti ed esperti Sarah Gainsforth affianca la propria esperienza personale, perché il tema della casa è legato alla comunità e concretamente all’individuo che ne fa il proprio ambiente. Scrive Aleksandar Hemon in I miei genitori/Tutto questo non ti appartiene (Crocetti editore, traduzione di Gianni Pannofino): «La casa è quel luogo in cui si crea il vuoto quando non ci sei tu ad abitarlo; la casa è il luogo riempito dal tuo corpo». È questo il legame che si va a spezzare: quel vuoto diventa spazio per un’altra cosa drammaticamente immateriale, eppure capace di strappare il tessuto stesso di una società – il denaro; e dei corpi che riempiono i luoghi non pare preoccuparsi più nessuno.
Non vuole essere un testo demoralizzante: nel condividere lucidamente le sue ricerche Sarah Gainsforth ci ricorda che la casa è, per l’appunto, un racconto politico, e come racconto può avere le sue involuzioni e le sue derive, ma anche inventare un nuovo linguaggio. E se ci sono stati in passato esempi di welfare che hanno funzionato nel loro orizzonte, può succedere ancora; bisogna saper inventare altre strade.
Immagine di copertina: credit Valter Cirillo/Pixabay