Nel primo episodio della quarta stagione di Mad Men, celebrazione televisiva di una stirpe di spietati pubblicitari della Madison Avenue negli anni Sessanta, il protagonista, Don Draper, accompagna in taxi una giovane bionda e raffinata che ha appena portato fuori a cena, in direzione della casa di lei. Il taxi si ferma di fronte alla destinazione prescelta e Don osserva fuori dal finestrino. Nel suo sguardo si intravede curiosità, ma anche delusione per una serata che probabilmente non prevedrà ulteriori sviluppi. Sono infatti di fronte al Barbizon hotel, al 140 East 63rd Street, la residenza per sole donne nel centro di Manhattan, impenetrabile fortezza, proibita a qualsiasi uomo tenti di spingersi più in là della hall a piano terra. L’hotel è in realtà un luogo molto speciale, la cui storia si intreccia indissolubilmente con alcuni momenti cardine della storia americana del Novecento.
Anticipando qualcosa in più, nell’estate del 1953, una ventenne Sylvia Plath si conquista uno dei prestigiosi lavori estivi presso il magazine Mademoiselle. Nel 1955, Joan Didion riceve lo stesso invito, e con lei altre splendide scrittrici, come Gael Greene e Janet Burroway. Tutte trascorrono «l’estate della loro vita» a Manhattan, tra i grattacieli che oscurano il sole e i taxi che sfrecciano sulle strade strabordanti di lavoratori e di lavoratrici. E l’alloggio consigliato per quest’esperienza condivisa è proprio il Barbizon hotel.
L’elegante residenza woman-only apre le sue porte nel 1930 e fino agli anni Ottanta rimane un pilastro inamovibile nella vita di donne e ragazze impiegate nelle arti e in nuovi business. Paulina Bren, storica e professoressa di Gender, Media e International studies al Vassar College, racconta e analizza nascita, fioritura e declino di questo hotel particolarissimo in uno splendido saggio biografico, uscito da poco in Italia per Neri Pozza. Navigando nelle acque intrepide del mare in tempesta quale è la New York di metà Novecento, Barbizon Hotel. Storia di un hotel per sole donne trasporta lettrici e lettori in un viaggio in tempi non molto lontani, consentendo un’immersione di traverso nel Secolo Breve, sulla scia di una prospettiva spaziale estremamente attraente.
«Era un hotel residence per sole donne, dal quale gli uomini erano volontariamente esclusi».
Il mondo del Barbizon è il mondo delle donne del suo tempo, residenti con storie originali, talvolta ordinarie, ma che hanno registrato la loro permanenza nell’esclusivo hotel come un momento di svolta, un crocevia di scelte e decisioni spaventosamente influenti sulle loro vite. Arte e libertà aleggiavano come fantasmi amichevoli nelle stanze ordinatamente disposte del Barbizon. Tra le sue mura di «palazzo di cristallo wannabe», hanno infatti riposato attrici in fasce come Grace Kelly, Rita Hayworth e Liza Minnelli; giovani promesse della moda come la stilista Betsey Johnson e la modella Carolyn Scott; creative sovversive e individualmente creatrici di cambiamento come l’artista visiva e scrittrice Barbara Chase-Riboud (una delle prime ospiti afroamericane); e, come già accennato, l’hotel conobbe anche le prime versioni giovanili di donne straordinariamente note nell’universo delle lettere, come Joan Didion e Sylvia Plath.
La promessa di eleganza, decoro, sicurezza e reputazione che le residenti sottoscrivevano affidando le proprie vite di ventenni alle camere del Barbizon racchiude in sé la sacra garanzia di una libertà tanto agognata e desiderata, che non era affatto un bene tangibile e facilmente afferrabile per le donne degli anni Trenta e Cinquanta.
In tempi in cui la parola “femminismo” non veniva ancora utilizzata nella sua forma più eloquente, seppur esistendo già come concetto e ideale, donne giovani e piene di speranze giungevano a New York in cerca di avventura, indipendenza e stimoli, e nel Barbizon trovavano un rifugio pronto ad appianare le possibili difficoltà iniziali che la città poteva presentare loro. La retorica della «stanza tutta per sé» che il Barbizon di certo veicolava non si esaurisce però nell’immagine woolfiana pura e semplice di uno spazio creativo personale e senza influenze esterne, bensì si trasla su un’idea di esperienza più totalizzante ed estesa alla città stessa, identificabile in quanto campo d’azione per la realizzazione del sogno di libertà e di anticonformismo iscritto nelle menti delle ragazze che vi arrivavano ogni mese.
«Cercare di essere le persone che erano, o che volevano essere, non era facile», ed era proprio così. La perseveranza di queste donne e ragazze “barbizoniane” nel desiderio di conquistarsi qualcosa da sole, rimanendo fedeli alla propria idea di sé, fu uno degli ingredienti che portarono a vittorie reali, suggellate da avanzamenti ideologici atti a superare dinamiche conservatrici e patriarcali, come lo stigma sulla salute mentale e il prototipo della moglie perfetta, modello di vita al quale qualsiasi giovane sotto i venticinque anni doveva aspirare a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Depressione e atti estremi come autolesionismo e suicidio sono stati una piaga tenuta in silenzio per molto tempo, problematiche affrontate gradualmente anche grazie a testi come gli scritti di Sylvia Plath e La mistica della femminilità (1963) di Betty Friedan, che diede primariamente corpo ai pensieri che affollavano la testa di milioni di donne americane del tempo, frustrate, annoiate e infelici.
Dalla sua apertura negli anni Trenta, in piena epoca flapper (quelle giovani à la Zelda Fitzgerald, donne più disinibite, avvolte in vestiti luccicanti e acconciate in corte capigliature dalla perfezione sensuale, che bevevano cocktail in pieno Proibizionismo), in seguito alle costrizioni imposte dalla Grande depressione sulle aspettative sui lavori femminili più consoni, come testimonia l’incredibile affluenza alla prestigiosa scuola per segretarie di Katie Gibbs, con sede al sedicesimo piano del Barbizon, o la fama dell’agenzia per modelle Powers, l’hotel viene travolto dal cambiamento nelle aspirazioni delle residenti degli anni Cinquanta, giovani donne dai fulgidi desideri di fare carriera nel giornalismo e nelle arti visive. Plath e Didion furono tra le prescelte a diventare, nei rispettivi mesi di giugno, cosiddette “Millies”, ovvero praticanti del magazine femminile più rivoluzionario di quegli anni, Mademoiselle, che prometteva alle lettrici d’America un nuovo modello di donna in cui le più giovani potessero identificarsi e ritrovarsi. Le esperienze estremamente differenti delle due autrici, alle quali Bren dedica tre interi capitoli, possono essere emblematiche delle gioie e delle difficoltà che hanno caratterizzato questo tipo di ragazza dell’epoca, solitamente bianca, benestante e brillante studentessa di un qualche college prestigioso, come Vassar o Berkeley.
Mentre per Didion New York fu un meraviglioso e perfetto primo amore, dal quale difficilmente si staccherà anche in anni più tardi della sua vita, per Plath è stata tutt’altro che spensieratezza (celebra la fine del suo mese da Millie gettando dal tetto del Barbizon qualsiasi indumento in suo possesso). Scriverà in toni forti ed emozionali del suo complicato periodo di stage da Mademoiselle nel suo La campana di vetro, in cui sono condensate alcune delle esperienze di quell’estate da redattrice e ragazza di città.
«Il Barbizon per gran parte del Ventesimo secolo era stato un luogo in cui le donne si erano sentite al sicuro, dove avevano avuto una stanza tutta per loro per organizzare e progettare il resto della vita. L’hotel diede loro la libertà.»
Aspirando alla torre d’avorio in un’epoca friabile come un biscottino da tè, il Barbizon è stato testimone di momenti storici di enorme portata nella storia dell’America moderna e contemporanea. Insieme al graduale processo di emancipazione femminile, ha visto poi il progressivo espandersi della lotta per i diritti civili, delle battaglie femministe e i mutamenti da esse scaturiti con la conquista, almeno preliminare, di queste libertà. Nonostante la sua natura statica di freddo cemento, l’hotel è stato un luogo avvolto nel dinamismo della sua epoca e di una città in continuo e incessante divenire, rimanendo anche per questo suo aspetto per sempre inciso nelle memorie delle sue residenti.
Photo credits
Immagine di copertina: New York Post
Immagine bianco e nero: The New York Times