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Rendere visibile l’invisibile. Sortilegi di Bianca Pitzorno



In occasione della diciannovesima edizione di Microeditoria di Chiari (25-28 giugno), in cui sarà presente anche Limina domenica 27 in un dialogo con Annalisa Cuzzocrea, la rivista propone qui di seguito la recensione di un’altra grande autrice che sarà ospite a Chiari: Bianca Pitzorno.


Esiste un pezzo di irrealtà sensorialmente percepibile. Sortilegi tangibili e terreni: avvertibili da tutti, ma comprenderli a un punto tale da essere in grado di farli propri, spiegarli e raccontarli è solo da chi possiede una sensibilità fuori dal comune. E Bianca Pitzorno la possiede senza dubbio.
L’autrice da oltre due milioni di copie vendute ha ammaliato generazioni di bambini e adulti come pochi altri, come forse nessuno. E se non si vuole credere al paradigma assiologico che dà valore ai numeri, se non si vuole credere a queste parole, che ci si sforzi allora di avere fiducia nella parte infantile che è ancora in chi scrive, che si immergerebbe seduta stante e senza alcuna remora nella propria copia ormai consunta di La bambinaia francese: letta, riletta e trasportata in ogni dove.

L’ultimo incantesimo di Pitzorno è Sortilegi (Bompiani, 2021). Il titolo e la copertina verdognola evocano storie misteriche: a riprova del fatto che il paratesto non è affatto secondario per l’oggetto-libro e che, se coerente con il testo che vorrebbe rappresentare, il lettore può iniziare a viaggiare prima ancora dell’apertura delle pagine. Ed è quanto accade qui.
Sortilegi consta di un racconto lungo e due brevi, di cui il terzo e ultimo brevissimo. I testi presentano date e occasioni di scrittura differenti, esplicitate dalla stessa autrice, e nulla hanno a che fare l’uno con l’altro anche dal punto di vista formale: lo stile e la lingua non potrebbero essere più diversi, così come anche i tempi e gli spazi d’ambientazione, l’impianto strutturale, i personaggi e la loro caratterizzazione, i temi. A tenerli saldamente legati è unicamente il loro essere narrazioni di sortilegi reali, incantesimi davvero accaduti e che davvero accadono nel mondo terreno.

Primo tra tutti, in posizione preminente, c’è l’incantesimo che permette a una donna qualunque di essere riconosciuta come strega; l’incantesimo della paura che cattura la giovane che, sottoposta a tortura, confessa, giura di aver compiuto crimini che in verità non le appartengono; l’incantesimo che prende chi testimonia contro di lei, in preda alla follia annebbiante della credenza popolare. Il primo dei sortilegi narrati (La strega) è quello della superstizione, della paura ignorante di chi non riesce a comprendere i fenomeni naturali che lo circondano e sente gravare su di sé il destino antropologico della necessità di darsi sempre una spiegazione, qualcosa che permetta comunque di collocare nel proprio mondo ciò che è inconoscibile. Ed è la donna il capro espiatorio, irrimediabilmente.

Ma, in questo racconto ambientato nella prima metà del Seicento, al timore nella natura inizia a esserci un contraltare: la ragione, la pura razionalità. Essa ha come simbolo cardine Galilei, non a caso nato e morto insieme a Caterina, la giovane protagonista del racconto accusata di stregoneria. Allora nell’oscurità di chi colpisce alla cieca pur di avere una chiarificazione delle epidemie, delle malattie quotidiane, dei cattivi raccolti, inizia a intravedersi una luce.
Il tutto è qui condito dall’italiano secentesco – ottenuto da Bianca Pitzorno grazie allo studio delle lettere di Virginia Galilei, figlia primogenita del grande scienziato – e da dettagli della vita quotidiana che replicano fedelmente le abitudini reali della gente dell’epoca.

Sortilegi

Poi, c’è l’amore puro: c’è un’orfana come protagonista chiamata Vittoria, nome assegnatole per buon auspicio, c’è una sorte inizialmente avversa, un principe azzurro che la incontra, se ne innamora pur conscio delle umili origini di lei, una maledizione di una cattiva antagonista sventata provvidenzialmente, e vissero tutti felici e contenti. Il secondo dei sortilegi narrati da Pitzorno, Maledizione, è quindi una fiaba, con tutte le sue caratteristiche canoniche: personaggi tipizzati, un’ambientazione senza tempo né luogo, lieto fine.
C’è anche uno strumento magico, che avrà ruolo chiave nella narrazione e funzione provvidenziale per la giovane protagonista, ed è una tovaglietta con il ricamo di una maledizione, dichiarata nelle Note dall’autrice come realmente esistente – essa è conservata nella sezione etnografica del Museo Giovanni Antonio Sanna di Sassari e risale all’incirca al XIX secolo. Una fiaba che quindi si scopre non essere davvero una fiaba, quanto piuttosto la narrativizzazione di un mondo lontano che è esistito, nel quale la magia, potentissima, tutto poteva e tutto regolava.

C’è infine la nostalgia per la patria e la potenza delle tradizioni, qui resa sensorialmente percepibile nel profumo inebriante di alcuni biscotti speciali che solo Lenedda e i suoi due figli sono in grado di ricreare, un odore tale da far rompere i fidanzamenti «perché l’amato o l’amata non hanno un profumo altrettanto buono e forte». D’altra parte, impossibile biasimarli: «in nessun’altra parte della Sardegna, e neppure d’Italia, esistevano biscotti uguali. Somiglianti sì, ma nessuno all’altezza […] perché solo l’aria, il fuoco, il vento di Mughèdule potevano creare quel miracolo». L’ultimo dei sortilegi è Profumo: il radicamento nella propria terra è ultramondano, invisibile ma reale, e la fede nelle tradizioni è ciò che lo rende tangibile.
I biscotti di vento esistono davvero e l’occasione di scrittura di questo breve raccontino che romanza la loro storia è una moderna installazione a loro dedicata.

Sono la superstizione che ha portato alla caccia alle streghe, uno strumento maledetto e il richiamo fortissimo delle proprie tradizioni i tre Sortilegi. E sebbene la sensazione durante la lettura sia esattamente quella di godere di narrazioni favolistiche e consolatorie, di scrittura d’evasione (con la connotazione più alta possibile del termine), di intrecci d’invenzione dato che la magia non esiste, con stupore si legge poi del fortissimo radicamento nel reale di queste storie. E ci si guarda attorno con occhi diversi, si scovano incantesimi laddove prima si vedeva solo il quotidiano, e si notano astratti nel concreto.

D’altra parte Bianca Pitzorno è un’incantatrice, ed è inevitabile che ogni carta vergata o, più modernamente se si vuole, ogni lettera battuta dalle sue dita generi uno sciame di ammiratori, inebetiti, pronti a seguire le sue lettere messe in fila per generare parole, frasi, narrazioni, a tallonarle fino all’ovunque, o meglio, fino all’altrove ove esse si dirigano. Come fossero tutti, come fossimo tutti sotto sortilegi.



Copertina: Alfonso Navarro tramite Unsplash

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