Quando ho avuto tra le mani le lettere di Anna Maria Ortese a Marta Maria Pezzoli, raccolte nella bella edizione Adelphi con il titolo Vera Gioia è vestita di dolore, ho immediatamente pensato all’importanza delle corrispondenze degli scrittori nella storia della letteratura universale. Ci sono carteggi che in certi casi possono raggiungere e superare il valore di un’opera. Per lo più si tratta di vere corrispondenze, di dialoghi con due, talvolta di più, interlocutori, che realizzano un dialogo spesso illuminante su idee e periodi storici. In questo caso però come in tanti altri, manca una voce. Leggiamo dunque domande che rimangono eluse o risposte a interrogativi che ci tocca ricostruire con uno sforzo dell’immaginazione. La prima corrispondenza mutilata che mi è venuta in mente è stata quella tra Eugenio Montale e Irma Brandeis, Lettere a Clizia (Mondadori), dove il corpus è essenzialmente costituito dalle missive del poeta, essendosi perdute o andate distrutte quelle della giovane e brillante scrittrice americana, sua amante e musa. Tutte tranne una, ovvero una lettera non spedita e conservata da Irma che chiude il carteggio testimoniando la presenza di “qualcuno in carne e ossa” dall’altra parte del filo, del discorso.
Di Anna Maria Ortese, vale la pena ricordarlo, esistono diverse corrispondenze, alcune inedite come le lettere a Paola Masino custodite nel Fondo Falqui della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma o quelle ad Adriana Capocci Belmonte nell’archivio privato Silvana de Luca. Una menzione particolare va alla nutrita e inedita corrispondenza con Giorgio Di Costanzo, che grazie a un lavoro meticoloso e appassionato tiene in vita un archivio digitale imprescindibile sulla vita e l’opera di Anna Maria Ortese.
Delle corrispondenze edite, fondamentali per capire testi e contesti dell’opera ortesiana segnalo:
- Alla luce del Sud. Lettere a Pasquale Prunas, a cura di Renata Prunas e Giuseppe Di Costanzo, Milano: Archinto, 2006;
- Bellezza, addio. Lettere a Dario Bellezza 1972/1992, a cura di Adelia Battista, Milano: Archinto, 2011;
- Possibilmente il più innocente. Lettere a Franz Haas 1990-98, a cura di Francesco Rognoni e di Franz Haas, Sedizioni, Mergozzo, 2016
- “Pensare l’alba al fondo di una notte d’inverno.” Lettere di Anna Maria Ortese a Patrick Mégevand (1978-1997), Philobiblon Edizioni Ventimiglia, 2017.
Vera Gioia è vestita di dolore è l’ultima ad essere stata pubblicata. Nel maggio del 1940, Anna Maria Ortese incontra a Bologna Marta Maria Pezzoli, giovane studentessa universitaria che gli amici chiamano Mattia. Questa corrispondenza è preziosa per le ragioni che tenterò d’illustrare.
In tutte queste “ricostruzioni” manca una voce. A cosa dobbiamo questa assenza? Alla disattenzione di Anna Maria Ortese? A un suo desiderio di “dimenticare” tutto e dunque niente, conservare delle amicizie maschili e femminili che durante tutto l’arco della sua vita ne avevano costellato l’universo degli affetti? Nulla di tutto questo. Per capirne la ragione basta rileggere il testo d’introduzione di Renata Prunas alla corrispondenza con suo fratello Pasquale, da lei curata insieme a Giuseppe Di Costanzo.
«Portai ad Anna Maria alcune di queste lettere. Le volle leggere con me. La lettura fu lenta e assorta. Spesso bisbigliava qualcosa di incomprensibile e prendendomi la mano sembrava cercare sostegno per non perdersi nel ricordo di quei suoi momenti felici ma anche difficili e tormentati. Ricordando le lunghe risposte che riceveva dall’amico ormai perduto, mi disse: “Sai, spesso le leggevo e rileggevo per caricarmi del suo ottimismo, per non dimenticare i suoi preziosi consigli, per assorbire la sua forza, la sua carica morale. Erano così belle le sue lettere!”
Chiesi timidamente ad Anna Maria se le avesse ancora. “Ma sì, le dovrei avere da qualche parte, non ricordo, non riesco a ricordare…, chiederò a mio fratello Francesco, che ora vive con me, di guardare in certi scatoloni… Ma sai, quando dopo lo sfratto fummo costrette a cambiare casa, eravamo così disperate io e mia sorella Maria per questo abuso, questa ingiustizia che, prima di andar via e quasi con rabbia abbiamo buttato via tante cose, troppe cose si erano accumulate disordinatamente in tanti anni. Chissà! Chissà dove sono finite! Un trasferimento distruttivo, sotto tutti i punti di vista. Siamo finite in questa piccola casa senza sole, soffocata in una stretta strada che ci nasconde anche il mare. La malinconia ha presto portato via Maria ed in me ha risvegliato una struggente nostalgia di Napoli”.»
Renata Prunas ci ricorda che «le lettere non furono mai ritrovate, né dal fratello Francesco, suo unico erede, al quale le richiesi ripetutamente dopo la scomparsa di Anna Maria nel marzo del ‘98, né dalla nipote Rita Ortese che affettuosamente si impegnò nella loro ricerca fra le carte di Anna dopo la tragica scomparsa di Francesco, avvenuta solo tre mesi dopo a Milano, stroncato da un infarto alla fermata dell’autobus mentre stava per recarsi alla casa editrice Adelphi.»
Anna Maria Ortese, alla stregua dei medievali clerici vagantes, è un’intellettuale nomade, non stanziale dunque, lontana dalle cabine di regia della cultura ufficiale dell’epoca ma presente in ognuno di quei luoghi in cui una fiamma seppure tenue di speranza brillava improvvisamente come fu il caso della Rivista Sud a Napoli nel dopoguerra. Impossibile conservare delle cose altro dalla memoria di esse.
«Ho avuto esperienze di fuoco. Ho cambiato trentasei case, dieci città» racconta la scrittrice nel ’96, (in Luca Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Mondadori).
Perché seppure nomade, vagante – sono una bussola senz’ago, dice di sé – è una dimora, un’isola quella che desidera come sa chi per mari e naufragi abbia passato la propria esistenza alla deriva.
«Mattìa, quanto desidero una casetta dove, rientrando, ritrovare tutti riuniti: genitori e fratelli. Una casetta tranquilla… dove, come nei primi anni di vita, raccogliermi ancora con gli inquieti pensieri. Un lettino fresco, col suo lume accanto, avvolto in un paralume rosa, dove la sera, prima d’addormentarmi, potessi indugiare a leggere il prediletto Andersen!»
XL 3 settembre 1941
Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia
«Vera gioia, è vestita di dolore. Vero dolore, è vestito di gioia. Sentire, sentire, sempre più “sentire”. Io non desidero altro.»
Da questo passaggio (lettera del 5 giugno 1941) è stato tratto il titolo, tacendo la controparte; una riflessione che fa eco al celebre motto latino usato da Giordano Bruno come epigrafe all’opera teatrale Candelaio: «In tristitia hilaris, in hilaritate tristis».
In questa dualità si trova a mio avviso la cifra della Ortese e il carattere, la natura di uno scambio epistolare che non sappiamo veramente quando inizi – la prima lettera lascia immaginare un precedente – e nemmeno quando e soprattutto perché finisca.
Allo stesso modo con cui l’autrice usa firmarsi talvolta Anna Maria, altre semplicemente Anna, nelle considerazioni che via via condivide con l’amica c’è il rigetto di un’identità chiusa, una forma assoluta e assolutoria dell’esistenza. Per quanto si sia tentati di considerare questa avventura epistolare una storia per donne sole, come del resto lascia presumere che lo sia l’altra corrispondenza, quella con Adriana Capocci Belmonte, molti sono gli elementi che ci inducono a pensare che la Ortese si rivolga a Mattìa come destinataria di un parlarsi a voce alta, in un gioco di ruoli in cui sia sempre e comunque lei a parlarci, sia come mittente che come destinataria. Con questo non voglio affatto ridimensionare la sensibilità e intelligenza della sua interlocutrice ma semplicemente prendere atto del fatto che in poche delle missive a firma di Anna Maria Ortese si faccia allusione alla mossa che la precede, come se in definitiva fosse da sola a giocare la sua partita di scacchi con la vita e la letteratura. E lei ne è perfettamente cosciente.
«Il mio torto, causa della mia perplessità nel chiudere la lettera, era di averti, in questa, parlato esclusivamente di me. Più: di avertene parlato in tono amaro e questo in ricompensa della dolcezza con la quale tu mi hai inviato il dono. Mattia, perdonami. Ogni tanto, mi par d’essere, nei confronti del mondo, come una grandissima ladra: io prendo prendo prendo, e mi lamento sempre di nulla avere avuto.»
Scriverà il 23 maggio 1941.
Tale gioco di specchi diventa ancor più evidente quando Anna Maria Ortese parla all’amica del bellissimo ritratto fotografico di Katherine Mansfield che si è ritrovata tra le mani sfogliando l’edizione pubblicata da Treves.
«Avrei proprio avuto una giornata pessima e triste, se la sera, prima di addormentarmi a casa dei miei amici, non avessi, in un libro, trovato una fotografia di Caterina Mansfield, della quale m’ero ricordata sentendone da te parlare. Hai mai visto questa fotografia. È in un’edizione di Treves, rilegata in tela e oro. Mi pare si tratti di un Preludio ma forse sbaglio. Mattìa, com’è incantevole questa donna. Ti prego, guarda il suo ritratto e poi me lo dirai. Nei suoi occhi pare che vi sia tutta la luce più candida e più misteriosa del mondo, anzi non è neppure uno sguardo di questa terra. La luce vaga ch’è negli occhi dei bambini o nei cieli sull’alba. Ella ha una camicetta bianchissima e, all’orecchio, due orecchini che le conferiscono una grazia a noi oggi sconosciuta. – Hai visto mai altre fotografie della Mansfield? Se ne trovi, dimmelo.»
19 e 21 marzo 1941
Ho trovato in rete la foto che potrebbe corrispondere a quella citata e ammirata dalla Ortese e per curiosità sono andato a rivedere quella che lei aveva mandato all’amica. Le ho messe una accanto all’altra per capire meglio cosa avesse potuto affascinare l’Ortese della scrittrice tanto amata. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a due facce della stessa medaglia. A parte l’intensità dello sguardo nulla pare apparentarle, eppure v’è in questa doppia anima delle cose e delle persone il tema per eccellenza della poetica di Anna Maria Ortese. Dolore e Gioia.
Ho cercato la ricorrenza delle due parole nella corrispondenza e non senza sorpresa ho scoperto che la parola gioia riviene più spesso. Vero è che si accompagna per lo più ad uno stato d’animo, una sensazione che s’avvicina per tono al dolore, come se in alcun caso si potesse prescindere dall’una o dall’altro. Mentre svolgo questo esercizio possibile grazie al digitale mi rendo conto che negli anni a venire sarà difficile avere corrispondenze con una delle due voci, assente poiché tutto è tracciato da quel primo scambio. È un bene? Un male? Si potranno correggere e addirittura inventare risposte mai scritte?
Lo stesso dolore pare avere due nature. Una nobile, in grado di generare altro da sé:
«Coraggio. Anche quell’amarezza bisogna che passi nel filtro magico e diventi sensazione, ricordo splendente. È soprattutto sul dolore che bisogna lavorare per farne dolcezza. Ottenere qualche lume dalla gioia, è cosa troppo facile.»
XVII- 19 e 21 marzo 1941
O ancora:
«Cara Mattia, grazie con l’anima delle tue parole. Sento però di non meritarle, come credo di non meritare nemmeno questo dolore (voglio dire esser degna, farne uso di scala.)»
IX 25 gennaio 1941
E tralasciando altri passaggi, i versi della poesia che concludono la corrispondenza:
«Ma il mio caro balocco non mi dimentica:
con le sue piccole orecchie di stoffa tutto sente,
con i suoi tondi occhi di vetro tutto beve
il dolore che germina su questo
strano, doloroso globo.»
E il dolore che si associa alla cattiveria, un dolore che non salva e da cui bisogna rifuggire soprattutto quando ci appartiene.
«Tu non sei stata mai “cattiva”, forse eri “stanca»”. Questo è umano. Diamoci fraternamente la mano, Mattia. Del resto, chi sempre deve domandar perdono, sono io.»
XXVIII. 14 maggio 1941
«Sono contenta di me. – E tu, Mattia? perché diventi cattiva? Non bisogna. Non bisogna badarci – non crederci – sono momenti. Quella persona non ha scritto. Bene. Ma io fui così contenta, di scrivergli – tutto è bene, come per C. Mansfield.»
LI 29 aprile 1943
Nella corrispondenza con Pasquale Prunas, Alla luce del Sud. Lettere a Pasquale Prunas 1946-59, c’è un passaggio essenziale sul tema della cattiveria che vale la pena ricordare. A chiarirlo è Tiziana Gazzini, che in un articolo, La quarantatreesima lettera pubblicato sul n°8 della Rivista Sud (nuova serie) rievoca le vicende del Mare non bagna Napoli, la cui pubblicazione determinò una vera rottura tra la Ortese e i suoi compagni d’avventura, di quella incredibile e magnifica impresa che fu la Rivista Sud a Napoli nel dopoguerra:
«Sì, sarà stato Vittorini, saranno state le leggi crudeli del successo a Milano, dove “bisogna essere cattivissimi per riuscire” (lettera 23, 17 agosto 1948), ma è soprattutto la natura della Ortese a farle commettere quel peccato umano che le assicurerà il successo letterario. E ancora una volta è Pasquale ad avere ragione. Lui la conosceva bene. Nella stessa lettera, Anna Maria scrive: “Ho l’impressione che tu ti sia sbagliato sulla carica di cattiveria che portavo in me, e che io sarò bocciata”».
Per ritornare al tema della “voce sola”, illuminanti sono i due passaggi che seguono. Nel primo è questione dell’isolamento dal mondo – «Amo il mondo,con una specie di avidità e disprezzo insieme» – che è il male assoluto rispetto a una solitudine invocata dall’autrice e in fondo ostello del sentire.
«O Mattìa, ma io non sono ancora ben certa che in fondo a questo, per alcuni di noi, non si trovi una insostenibile sofferenza,un buio fitto, un forte dolore. Certe volte io penso alle ore trascorse in cure della mia odiosa persona e dico: ma perché, perché ho dovuto togliere questo momento all’«attenzione», alla travolgente gioia di “ascoltare” e “guardare”.»
XVII 19e 21 marzo 1941
In questo invece si evince il tema del «pensare e parlarsi a voce alta », attraverso sé a sé:
«Tu pensa, Mattìa,che a nessuno come a te io posso parlare come a me»
XXXIII 5 giugno 1941
Monica Farnetti nella curata postfazione ci indica delle piste che ritroviamo alla fine di questa note de lecture e particolarmente nell’appello che fa l’Ortese all’amica.
«Mi pareva che tutto il mio meglio fosse là: purezza, fiducia, capacità di dolore, armonia. Ora, ho qualcosa ancora, che valga? Dimmelo tu, Mattìa (…) Nelle parole “io chiedo delle risposte al mondo… e in questi paesi nessuna creatura risponde” è criptata una citazione da Francisco de Quevedo, Ehi, della vita! Nessuno risponde?»
Un amore per Quevedo che Anna Maria Ortese riprende nella lunga intervista di Dario Bellezza quando parlando di Leopardi e Manzoni, descrive la loro forza del pensiero rispetto alla realtà: «La natura dei pensieri, unicamente la natura interiore dei sentimenti. Nulla è vero, tutto passa, tutto cade, tutto muta. Una verità già raggiunta, con altra violenza o nudità, dal pensiero spagnolo».
«¡Ah de la vida!”… ¿Nadie me responde?
¡Aquí de los antaños que he vivido!
La Fortuna mis tiempos ha mordido;
las Horas mi locuralasesconde.»
«Ehi, della vita! Nessuno risponde?
Voglio qui tutti gli anni che ho vissuto!
La Fortuna il mio tempo ha già compiuto,
la mia pazzia le Ore mi nasconde.»Sonetti amorosi e morali, Einaudi 1965 – Traduzione di Vittorio Bodini
È forse proprio per questo vuoto, per l’assenza di risposte – metaforicamente in questo caso della voce di uno dei corrispondenti – che vada cercata ancor più l’opera straordinaria di una scrittrice che ha saputo fare della letteratura vera arte del pensiero.
In copertina:
https://napoli.repubblica.it/commenti/2023/07/15/news/anna_maria_ortese_la_riserva_di_bellezza-407852217/