Nel 1916, in meno di sei mesi – gli ultimi sei mesi della propria vita – Jack London imbocca l’ultimo e letale tratto del suo sentiero sulla Terra: arriva sull’orlo dell’abisso, lì dove la massima espressione delle proprie intuizioni extra razionali lo ha condotto. Questa espressione ha per titolo The Red One – Il Rosso, e sboccia nel mese dei fiori, maggio. Solo dopo Jack inizia a leggere l’opera di un suo coetaneo, lo studioso della mente e dello spirito Carl Gustav Jung. Lo sappiamo: per chi scrive, spesso accade di scoprire, dopo, ciò che già prima ci aveva caratterizzato. Per chi scrive, la cronologia del tempo lineare ha poco valore. Di questo London parla con la moglie e compagna di avventure, Charmian:
«Mia compagna, sono sull’orlo di un mondo talmente nuovo, terribile e meraviglioso che ho quasi paura a guardarci dentro».
Jack ha quarant’anni. Sta compiendo il doloroso passaggio dalla governance dell’ego, il tumore della nostra società industriale e capitalista, allo scandaglio del Sè: sta diventando Jack London, l’uomo. Il suo complesso rapporto con l’idea di anima, spirito, interiorità, psiche, non gli aveva impedito di pubblicare racconti aldilà del noioso buonsenso del razionale. Il primo, il più evidente, era stato proprio Il Richiamo della Foresta (1903), che solo gli stolti possono considerare un racconto d’avventura per ragazzi. Lì, la visione meccanicista e adattiva – darwiniana – si era fusa con un abbandono della “razionalità” e la celebrazione dell’amore come strumento ultimo per trovare la libertà della propria natura. Il percorso di Buck da cane, che viene liberato da John Thornton, a lupo. John morirà, ucciso dal wild e questo, badate, ha molto a che fare con Il Rosso. Anche se Jack, questo, nel 1903 ancora non lo sapeva. In forma di romanzo, London era poi arrivato nel 1915 a un altro picco: The Star Rover, Il vagabondo delle stelle (ho inserito diverse considerazioni e un imprescindibile testo del professor Jay Williams nella mia curatela e traduzione edita da Feltrinelli per l’edizione del centenario).
Solo verso la fine, malato e vicino alla nuova frontiera della propria letteratura, Jack esce allo scoperto utilizzando archetipi che verranno poi definiti junghiani. The Red One fu frettolosamente snobbato o sottovalutato dalla critica letteraria. Uscito postumo, due anni dopo la scomparsa di London, con le impensabili intuizioni e le importanti innovazioni letterarie, Il Rosso (che ho tradotto nel volume Cacciatore di anime, Mattioli1885, 2009), rimasero sospese nello spazio. Se non è questa la sede per addentrarsi nella selva intricata della discussione sulla psiche, basti ricordare che nel caso di Jack London, fare riferimento alla complessa personalità dello scrittore californiano è utile per ricordare che proprio questa complessità ci ha donato lo scrittore-marchio Jack London capace di amare la vita e la gente al punto da inventare una letteratura popolare tout-court, ricca di contenuti e colta, ma contemporaneamente per tutti.
Nei suoi primi racconti, London aveva espresso quello che l’inconscio profondo dell’America temeva di se stessa – la crudeltà, la brutalità, «l’indebito addomesticamento della psiche nel nome della civiltà», per citare Jung. E di questo London fu accusato dalla esangue critica degli intellettuali che vivono nel proprio angusto cervello, poiché non si resero conto che Il richiamo della foresta aveva aperto il sarcofago nel quale l’America aveva seppellito le origini, il proprio destino – un sarcofago che, prima di Jack, altri scrittori americani (Herman Melville, Edgar Allan Poe, Henry David Thoreau, Walt Whitman, per esempio) avevano scoperchiato: London riuscì a far entrare gli americani nella psiche collettiva lì seppellita viva.
Nel maggio 1916, il giorno ventidue, alle Hawaii, London scrive The Red One. L’entità materializzata dalla sfera misteriosa del racconto è bene identificata, al centro dell’isola di Guadalcanal, dai suoi abitanti che la temono, la rispettano, le tributano sacrifici umani e la chiamano con tanti nomi. Bassett, il protagonista del racconto, così la vede:
«Era frutto di un progetto, non del caso, e in essa era contenuto il linguaggio e la conoscenza delle stelle».
Mentre Jack lavora al racconto – da un’idea del suo carissimo amico e scrittore George Sterling – ha in mente un titolo: The Message lascia poco spazio all’ambiguità di cosa veramente sia questa sfera incastrata in una buca vulcanica nel cuore dell’isola del Pacifico. Quarant’anni dopo, Arthur G. Clarke scriverà The Sentinel, racconto contiguo a Il Rosso, dal quale verrà tratto il capolavoro di Stanley Kubrick, 2001: A Space Odissey. Fu negli anni ‘50 che lo psicologo James Kirsch scrisse un’analisi di taglio junghiano dedicata a The Red One: durante un congresso affermò di essere rimasto colpito dal fatto che quando London aveva scritto Il Rosso, Carl Gustav Jung ancora non aveva formulato pienamente la teoria delle immagini archetipiche. Poi, nel 1980 fu pubblicato il testo della conferenza di Kirsch e come spesso accade, si capì che, come in altri suoi scritti, Jack London era andato in avanscoperta. Scrittore di grande successo, sì, ma al quale la critica per un secolo è stata, generalmente, incapace di riconoscere la genialità – avrebbe dovuto ammettere, la critica come l’accademia universitaria, la propria stoltezza.
Il racconto è uno straordinario luogo di archetipi: sono i fatti della vita dell’uomo, della natura e del destino, della specie umana, dei popoli che spinsero lo scrittore a cercare una sorta di mistero che percepiva senza riuscire a spiegarlo. Era la nuda anima della vita. Ecco perché nel 1916 Jack era così vicino a qualcosa di grande: «certe volte mi chiedo se sia possibile che, nelle elucubrazioni di Bassett, lo scienziato morente, Jack London non abbia rivelato molto più di se stesso di quello che egli stesso sarebbe stato disposto ad ammettere. O addirittura, chi può dirlo, forse più di se stesso di quanto egli stesso non avesse compreso» scriverà Charmian nella biografia postuma The Book of Jack London.
Jung, nell’età in cui morì London aveva individuato l’età del grande cambiamento dell’uomo, dopo il processo che aveva chiamato individuazione del Sé e del proprio destino. E forse per questo la sorgente della vita riaffiora incontenibile nei racconti e in libri come Il Vagabondo delle Stelle. Si potrebbe dire che l’Ombra è dentro di noi, che ci accompagna e che se non la si affronta essa sarà destinata a spaventarci con la sua proiezione selvaggia dell’Anima, incapaci come siamo, noi occidentali, di capire che gli estremi sono riconoscibili semplicemente perché tra loro c’è l’unità: basterebbe pensare ai due poli terrestri, per capire questa affermazione, che è poi alla base del Tao. E poi arriva The Red One, scrivendo il quale, sottolineò Kirsch, London aveva utilizzato «l’immaginazione attiva» entrando in contatto con quello che Jung chiamò «l’inconscio collettivo».
Poiché London aveva sempre avuto la tendenza a identificare il Sé con l’Ego (il primo è il centro dell’inconscio, l’Ego è il centro del cosciente), è evidente che – come archetipo – il Sé possiede una grande energia creativa: questa identificazione diventa pericolosa, poiché l’Ego dovrebbe essere al servizio e rappresentare il Sé ma se avviene il contrario, l’Ego finisce per schiacciarci. Basta leggere Alan Watts, per capire bene questo concetto. Nella fase finale della vita il corpo di Jack – come quello di Bassett – è distrutto dalla malattia, dalla fatica, dagli abusi: London non ammette di essere malato, ma Bassett sì. Ecco perché Charmian ha ragione quando afferma che, con Il Rosso, il marito svelò di sé più di quanto fosse disposto a riconoscere. L’ego lo sopraffaceva ma il malessere gli indicava dove andare a liberarsi, a «decapitarsi» nell’ultimo disperato tentativo di rinascere nella morte perché, come London scrisse a pochi giorni dalla morte, in Il figlio dell’acqua, ultimo racconto scritto, «nei sogni c’è molto più di quello che noi sappiamo. I sogni vanno nel profondo, giù sino in fondo, forse anche sino a prima dell’inizio».