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Si chiamava Popoff, ma non lo sapeva

Tra realismo e fiaba, il protagonista del romanzo di Graziano Gala è incantato e incompreso come solo un bimbo può essere

Si chiamava Popoff, ma non lo sapeva.
Che cercava suo padre, quello sì. Che aveva accarezzato la luce e quella Liu-cce! gli era rimasta nelle mani, anche.
Penso che deve essere terribile non perdere mai la speranza, continuare a domandare «mi scu-ci, ci-niò-re, à visto pe-ccaso mio pa-ttre?», incantato e incompreso come solo un bimbo può essere, senza abiti adatti, soltanto giubbotti.

Come mai il monco si disabitua al gesto ovvio, Popoff, senza nome e senza lingua – perché, anche stavolta, dopo Sangue di Giuda (minimum fax, 2021) e Ciabatteria Maffei (Tetra, 2023), Graziano Gala continua nel coriandolare lessico e sintassi andando ben oltre all’arcobaleno di dialetti e facendo, in Popoff (minimum fax, 2024), germogliare filastrocche: le stesse che ci cantilenava la mamma, le stesse che canticchiava Freddie Krueger in quegli ultimi attimi di dormiveglia che, chi è come Popoff sa bene, possono essere anticamera al tremendo – senza apparente diritto di esistenza alcuna, proverà, e in ogni modo, a portare a termine la sua ricerca (portando l’«io non me ne andrò senza tentare» (Gavino Ledda, Padre padrone, Feltrinelli, 1975) ad estreme conseguenze), grato a tutti i padri-altri che incontrerà dietro a un bussare di porte che ci verrebbe voglia di dirgli accontentati, basta così (ma accontentarsi è un malanno che viene più agli adulti che ai bambini), affezionato al compagno CagnoLillo, innamorato della Liu-cce, senza lasciarsi disunire, senza conservare un ricordo, perché un male di memoria è il peso che gli impedirebbe di mettere ancora un piede avanti all’altro, «ma Popoff / non si arrende e dopo un po’ / scivolando sulla pancia / fila verso il fiume Don» (Piccolo Coro dell’Antoniano, 1996).
A Popoff succede di tutto, ma ha la capacità di dimenticare e, quindi, di salvarsi. Perché Popoff è «bambino, soltanto bambino. Nient’altro».

popoff

Il romanzo svela dolorosi nodi famigliari impossibili da sciogliere. Gala parla di padri, ma vi si riconoscerà chi lo stesso modo di malamare l’ha provato con una madre. Gala fa parlare fratelli incapaci di comunicare, ma sarà facile riconoscere tutti le parole mancate con le persone a cui volevamo bene e abbiamo lasciato scivolare altrove perché avevamo troppo orgoglio, troppo sonno, perché, semplicemente, pensavamo di non essere capaci e, adesso, ci dispiace. Adesso, che è tardi. In Popoff, si manifestano tutte quelle rappresentazioni del volere bene che è tanto, troppo intricato al volere male che, liberi da schermi e chat aziendali, tutti abbiamo nostro malgrado provato a porre rimedio sotto un getto caldo di una doccia che non ha mai risolto niente, per ritrovarci lavati e sconfitti, ancora una volta. E Popoff non lo capirebbe tutto questo, perché, essendo un bambino, va incontro alle cose affrontandole per quelle che sono, per quello che lui è. E già questo modo di essere ci guarirebbe, almeno un poco, anche noi, i grandi.

Basterebbe, ma nel romanzo di Gala c’è tutto un paese fatto di personaggi che vi si incontrano e scontrano dentro, falenescamente attratti dalla piazza – che, non a caso, è anagramma di pazzia – che ci raccontano – in continuità a Sangue di Giuda – di chi, oltre a Popoff, appartiene alla schiera che è più comodo relegare all’invisibilità e non credo sia un caso che questo romanzo sia edito nello stesso anno in cui ricorre il centenario della nascita di Franco Basaglia (1924-1980). Questo sguardo incessante, quasi ossessivo, agli emarginati, agli spasulati, a chi non è offerta altra scelta che quella già in atto, per dolorosa che sia, porta in atto la reale tragedia: non ci sono colpevoli, non ci sono innocenti nella notte in cui vagano Popoff e tutti gli altri, perché pare proprio che, qui, nel mondo senza coordinate di Gala, anche i carnefici piangano prima di scheggiarsi anima e mani con la colpa d’essere innocuo del sacrificato di turno e la risposta sia sempre e solo rabbia, mai carezze.

A questo impegno sociale, tipico del southern gothic, che parte sì dal nucleo famigliare ma dilaga al paese, va sommata la capacità dell’autore di innestare elementi magici e surreali (le scritte che compaiono sui muri che tanto mi ricordano i cartelli affissi ne La mala ora (Gabriel García Márquez, Feltrinelli, 1970), il risuonare di altoparlanti supermercateschi, le fantasie di un esser bambino che permettono alla voce di chi narra di non spezzarsi) che ci lasciano liberi di vagare nei campi che confinano con il realismo magico italiano rappresentato da Dino Buzzati nei suoi racconti immersi in angosciose attese e oscura apprensione dove l’acqua, come per Gala, è in grado di assolvere a un primordiale e terrorifico ruolo («Ma no, vi dico, non è uno scherzo, non ci sono doppi sensi, trattasi ahimè proprio di una goccia d’acqua, a quanto è dato presumere, che di notte viene su per le scale. Tic, tic, misteriosamente, di gradino in gradino. E perciò si ha paura», La boutique del mistero, Mondadori, 1968).

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Ecco che Gala non smargina solo le parole, ma anche il genere, dando vita a qualcosa di nuovo, seppur radicato nel southern gothic e nel realismo magico, vicino al grottesco – in quanto poggiato sulle quinte di un «mondo estraniato» (Wolfgang Kayser, Das Groteske, G. Stalling, 1957) e portato in vita da personaggi con un’identità dissolta, con scelte linguistiche capaci di esaltare i paradossi logici e una tonalità emotiva fondamentale perché «avvertire il grottesco è […] avvertire quel disagio interiore che una causa esterna ci ha rivelato e che sfugge all’esame e all’intervento della nostra intelligenza» (Aldo Braibanti, Appunti per una ricerca sul grottesco, Feltrinelli, 1969) – con una delicatezza simile, per quanto priva di elementi gotici, a quella di un Tim Burton, che è tanto unico da non avere ancora una definizione per il proprio genere.

Ma se c’è qualcosa che Popoff ci insegna è che per andare lontano, per realizzare i propri sogni, per salvarsi, almeno un po’, un nome non è poi così fondamentale.
Lo capisco quando l’autore afferma che quando è arrivato Popoff lui sarebbe voluto scappare. Avrei voluto anche io, invece, l’ho letto, ho pianto.
E penso che non si dovrebbe scrivere dei libri che ci hanno fatto piangere. Ma l’ho appena fatto. Perché vorrei essere adulta abbastanza, bambina per sempre, da meritarmi Popoff.

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