Prima e dopo ogni discorso possibile sui femminismi, oltre tutte le riflessioni sull’empatia e sull’uguaglianza, prima di tutte le parole sulla libertà, c’è Goliarda Sapienza. Goliarda è stata attrice, scrittrice, partigiana e ha creato uno dei personaggi più pieni, ricchi e belli del Novecento italiano. Il romanzo della sua vita è L’arte della gioia: la scrittura della sua vulcanica e dissacrante protagonista, Modesta, ha richiesto dieci anni di lavoro; è stato pubblicato postumo, e solo in anni recenti il romanzo sta ricevendo gli onori che merita.
Prima e dopo L’arte della gioia Goliarda ha scritto soprattutto di sé, con l’urgenza di fare ordine nella propria vita e di raccontare alcune esperienze che l’hanno cambiata nel profondo. Questi romanzi, racconti, poesie, letti come testi satellite a L’arte della gioia, ci svelano che il personaggio di Modesta, che abbiamo amato e da cui siamo stati invitati a metterci in discussione e stare di fronte al magma pulsante della vita, ha le sue radici nei desideri e nella crescita dell’autrice.
Goliarda Sapienza è atipica, controversa, contraddittoria. È figlia di due figure di rilievo del socialismo italiano, rischia di morire «di mia propria mano» per due volte e va in prigione per aver rubato dei gioielli a un’amica. Letti per se stessi, invece, questi scritti concedono l’accesso alla vita di una donna pronta a mettere in discussione qualsiasi principio di autorità fuorché la fonte della vita stessa.
Per La nave di Teseo è stata da poco pubblicata la nuova edizione del romanzo in cui Goliarda racconta il proprio percorso di psicoanalisi, intrapreso dopo aver subito diversi elettroshock per un apparente tentativo di suicidio. Leggere Il filo di mezzogiorno vuol dire lasciarsi portare nel punto più basso della vita di una donna ardente e accentratrice, entrare nella sua testa e nella sua depressione per trovarvi la vitalità più graffiante ed energica. Goliarda racconta il proprio percorso di guarigione attraverso la parola e l’allenamento nel nominare le proprie inquietudini e contraddizioni; e insieme racconta del rapporto tra medico e paziente, di tutta la verbosità e gli sguardi, che si mescolano nella scrittura come erano ingarbugliati nella mente e si sciolgono e appianano nello stile con il procedere del percorso di guarigione.
Nel 1962 l’analisi è una pratica innovativa in Italia, Goliarda ne scrive a percorso concluso, dopo tre anni di cura quotidiana; la scrittura è terminata nel 1967, quando esce il suo primo romanzo, Lettera aperta, ma Il filo di mezzogiorno verrà pubblicato nel 1969. I due formano un dittico autobiografico che anticipa il lavoro su Modesta e L’arte della gioia, il personaggio destinato a entrare nella biblioteca e nell’animo di tanti.
In Lettera aperta, l’esordio nella scrittura, Goliarda apre i rubinetti sulla propria infanzia e riversa sulla pagina i protagonisti della fanciullezza vissuta a Catania nella più atipica delle famiglie durante il fascismo. Questo l’incipit:
«Non è per importunarvi con una nuova storia né per fare esercizio di calligrafia, come ho fatto anch’io per lungo tempo; né per bisogno di verità – non mi interessa affatto, – che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da quarant’anni sulle spalle.»
Suoi fratelli e sorelle sono i figli dei precedenti matrimoni dei genitori, suoi insegnati e maestri gli abitanti di un quartiere povero e di prossima distruzione, Goliarda cresce negli ideali del socialismo senza frequentare la scuola fascista. A sedici anni parte per Roma, per l’accademia d’arte drammatica, con addosso solo quel siciliano, la lingua della vita e della carne, che dovrà epurare per fare l’attrice e che tornerà nelle poesie – la raccolta Ancestrale nasce nel lutto per la madre, morta dopo una dolorosa pazzia – e tornerà nelle parole di Modesta e degli altri personaggi de L’arte della gioia.
Chi popolava Lettera aperta, insieme a quel dialetto impuro e denso, torna ad affollare la mente della malata ne Il filo di mezzogiorno, sovrapponendosi e imponendosi ai vent’anni di vita condotta a Roma da Goliarda. Gli elettroshock hanno annullato in lei la progressione temporale e hanno imposto i cortocircuiti delle emozioni e dei sentimenti. Il tempo si è agglomerato in un eterno presente dove i corpi di amiche dimenticate e dei primi maestri si toccano e diventano profumi. Dove Goliarda impara a dipanare la propria emotività sotto la guida del medico e inizia a dare un nome ai sentimenti, a tracciare con la logica della scienza psicoanalitica un sentiero fatto di parole sulla matassa incomprensibile di se stessa.
Goliarda torna a vivere tra la gente, guarisce, ma la vera conclusione del romanzo è nella negazione di ogni etichetta, nel segno del rifiuto di ogni definizione. «Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto e alla sua morte». Le parole usate nei tre anni di psicoanalisi, la diagnosi applicata con metodo a ogni sogno, a ogni desiderio, a ogni istinto della pelle, degli occhi e della carne deve essere poi rigettata perché insufficiente a dire il mistero della donna e dell’uomo. Non è fatta di parole la carne che freme, le vene che incessantemente muovono il sangue nel corpo: nessuna definizione può permettersi di mettere un punto a una vita. Con il procedere dell’analisi anche la scrittura si dipana e si fa più lineare, mentre diventano frantumi le certezze del celebre medico, che abbandona la professione e la sua scienza. La stessa insofferenza per le parole definitive si trova, sotterranea, in tutti gli scritti di Goliarda, ma incarnata appieno ne L’arte della gioia da Modesta. Lei è il risultato del processo compiuto ne Il filo di mezzogiorno. Trovare le parole per dire se stessi è necessario, ci dice Modesta, che si guarda e si vede con un senso della realtà potente e demistificante, ma non bisogna commettere l’errore di rimanere aggrappati a ciò che si è stati. Nel finale de L’arte della gioia, infatti, Modesta fa una scelta che è apparentemente in contraddizione con quanto ha professato per tutto il romanzo, ma perfettamente in linea con quanto compreso ne Il filo di mezzogiorno: è la vita a essere reale, non le sue possibili definizioni.
Per tutta la narrazione la protagonista de L’arte della gioia rifiuta ogni legame che potrebbe limitare la sua assoluta libertà: nessuno, non un compagno o compagna, non i figli, neanche un partito, possono chiedere che lei cambi per loro. Dopo aver lottato con i denti e col sangue per difendere questo principio che per tutti è in fondo incomprensibile, accetta di collocarsi nella più standard delle relazioni affettive, dove si trova, in quel momento, bene. Qui sta l’ennesima potente affermazione di libertà: andare persino contro se stessa perché, appunto, la vita è più reale e vibrante delle parole usate per pensarla e descriverla.
Ed è qui, nella sutura fra Il filo di mezzogiorno e L’arte della gioia, nell’autobiografia che diventa narrazione, che sta la chiave di lettura di entrambi i romanzi. Quella libertà completa che rende Modesta un grande personaggio si origina nella ricerca della parola per dire se stessi e nella sua successiva negazione, per poter esistere a prescindere da quelle parole, oltre le definizioni e le analisi di sé. I finali dei due romanzi si toccano e noi troviamo Goliarda dentro Modesta, troviamo quella ricerca costante della gioia che diventa per noi un orizzonte a cui tendere, una forma mentis da imparare.