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“Scrivo per addomesticare le mie paure”. Intervista a Georgi Gospodinov



Georgi Gospodinov, poeta e narratore classe 1968, è considerato il più importante scrittore bulgaro: recente vincitore del Premio Strega Europeo con il suo ultimo romanzo Cronorifugio (2021), ha raggiunto una prima notorietà in Italia con il precedente romanzo Fisica della malinconia (2013). Tutti i suoi libri, a cominciare dall’esordio Romanzo naturale, del 2007, ai racconti di …e altre storie (2008), E tutto divenne luna (2018) e Tutti i nostri corpi (2020) sono editi in Italia da Voland. Romanzo naturale è tradotto da Daniela Di Sora e Irina Stoilova. Tutti gli altri sono curati e tradotti da Giuseppe Dell’Agata, traduttore anche della presente intervista.
Abbiamo intervistato Gospodinov in occasione della vittoria di Cronorifugio nelle Classifiche di Qualità dell’Indiscreto relative alla letteratura straniera dell’intero 2021.

Gospodinov

Cominciamo con Cronorifugio: il tempo, qui, è un tema centrale, ma in qualche modo lo è sempre stato, nei suoi romanzi…
Così è. Ma come non interessarsi di questo tema quando tutti siamo penetrati dal tempo. In un certo senso siamo addirittura costituiti dal tempo. Su questo tema si mettono a fuoco anche temi come la memoria, la morte, l’invecchiamento, l’accumularsi di passato. Nel romanzo si dice da qualche parte che noi siamo macchine per passato, produciamo continuamente passato. Oltre a questo il tempo possiede un tratto molto spiacevole, corre veloce, irregolarmente, a salti. Questo allarme per il tempo che fugge e che tu cerchi di arrestare è il tema centrale da secoli di tutta la letteratura. Qui ci viene subito in mente il Faust di Goethe, la Montagna magica di Thomas Mann.
Un eretico come il personaggio Gaustìn, si capisce, ammette anche che il tempo può anche non esistere in assoluto o che è una nostra invenzione, per fare i conti più facilmente e per dare ordine in qualche modo al caos. Una delle epigrafi al romanzo è un verso amato di Philip Larkin, «Dove si può vivere se non nei giorni?».

Romanzo naturale, il suo primo romanzo, era per certi versi un libro sull’impossibilità di scrivere di se stessi. Pensare quanto va di moda l’autofiction oggi…
E può essere che questa grande quantità di autofiction che oggi si produce sia il risultato della nostra incapacità di parlare di se stessi o di raccontare la propria storia personale. In Romanzo naturale il protagonista si scontrava con questo continuo balbettìo nel tentare di parlare delle proprie sconfitte e tentava sempre di parlare di altre cose. Ma parlando di tutt’altro – delle mosche, della storia naturale, della storia delle latrine – in realtà parlava sempre della sua sconfitta e di se stesso. Così va a finire che Romanzo naturale è, in pratica, un’autofiction, che ha anticipato di poco l’attuale ondata di una simile letteratura – un’ondata che in tempi di allarme mi sembra naturale.

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I lettori italiani apprezzano molto il modo in cui i suoi romanzi hanno strutture che in qualche modo riflettono i loro temi. Ad esempio, Fisica della malinconia assomiglia a un labirinto.
Sì, e direi che si tratta della struttura naturale di un romanzo in cui si racconta del Minotauro e del passato. È anche il modo naturale, a mio parere, col quale raccontiamo le nostre storie o col quale sono costruiti gli epos antichi. Così è con Sheherazade e con Ulisse. Cronorifugio, il cui tema è la memoria e il passato, utilizza invece la struttura che si sfalda dell’entropia, della progressiva amnesia e dell’oblio.

Lei ha scritto questi tre romanzi – Romanzo naturale, Fisica della malinconia e Cronorifugio, e in Italia è soprattutto famoso per questi, ma è anche un abile autore di racconti, e specialmente di racconti brevissimi.
Sa, né io né Gaustìn (l’alter-ego dell’autore, NdR) crediamo molto ai generi puri, non siamo ariani letterari. Non troviamo perfino una grande differenza tra la nostra poesia e la nostra prosa. Tutti i libri sono fatti di parole e di suoni. Il suono è importante, il ritmo, la capacità di percepire cose difficilmente percepibili come la luminosa inspiegabile malinconia delle tre del pomeriggio della domenica, tanto per dire.

Il suo lavoro si colloca in effetti su una zona grigia tra la malinconia e lo humour. Ride per non piangere? È vero, come ha scritto, che la Bulgaria è il posto più triste al mondo?
Mi piace molto questa espressione italiana, l’idea di ridere per evitare di piangere. Qualcosa di simile c’è anche nel modo in cui racconto le mie storie bulgare. Non puoi guarire dalla tua malinconia se hai perso la tua ironia – e l’autoironia. Quello che apprezzo nel modo in cui i miei genitori e antenati raccontavano le loro storie, è che erano piene di autoironia: in fin dei conti non si prendevano mai troppo sul serio. Mia nonna diceva che siamo come una tasca di dietro dei pantaloni, che può andare con noi, ma anche senza di noi.
Riguardo alla questione del “posto più triste del mondo”, si tratta del risultato di una vera classifica, stilata da The Economist, che uscì proprio mentre scrivevo Fisica della malinconia, e perciò l’ho usata nel romanzo. Credo che quando raccontiamo la malinconia, la addomestichiamo e la rendiamo più sopportabile.

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Non è moltissima la letteratura bulgara disponibile in traduzione, e forse questo la fa apparire ancor più alieno. Quali sono le sue influenze?
Sì, la letteratura bulgara è ancora la bella sconosciuta in Europa. Ma noi abbiamo splendidi scrittori dal ‘900 ai giorni nostri: ricorderò almeno Jordan Radičkov, che è stato tradotto e pubblicato in italiano. Il mio traduttore, Giuseppe Dell’Agata, è uno dei suoi traduttori ed è stato suo amico intimo.
Anche Kafka e il realismo magico sono stati molto importanti per me, come per altri autori dell’Europa orientale. Aggiungerei anche Čechov. E, ovviamente, le storie orali, un modo specifico con cui si racconta in queste aree geografiche. In breve, se devo parlare delle mie influenze, posso dirlo anche così: mia nonna e Borges.

Lei è famoso per l’ostinarsi a scrivere a mano, su un taccuino. Come arriva da queste bozze al libro finito?
È vero, porto sempre con me un quadernetto. È un’abitudine connessa con la scrittura di poesie che risale alla mia giovinezza, quando girovagavo per le strade o stavo per ore su una panchina osservando i passanti e componendo le mie storie. Le mie poesie e i racconti brevi sono scritti interamente a mano. Per i romanzi è necessaria una diversa disciplina. Scrivo nel modo migliore quando sono solo, più lontano, rinchiuso. I migliori mesi per la scrittura li ho passati in un monastero qualche anno fa. Scrivo con difficoltà nelle città più grandi, le città distraggono. Quando ero più giovane scrivevo soprattutto la sera, oggi perlopiù al mattino fino all’ora di pranzo. Curo la redazione più di prima e osservo che in ultima analisi per quanto possa sembrare buono un testo alla prima stesura, arrivo sempre alla fine a passare per ben sette diverse stesure.
La prima volta che ho scritto l’ho fatto in un quaderno rubato a mio nonno. Avevo avuto un brutto incubo per alcune notti di seguito e, quando l’ho trascritto sul quaderno, ci crediate o no, smisi di sognarlo. Avevo sei o sette anni, e lì capii chiaramente che il miracolo della scrittura funzionava: può scacciare le nostre paure. Penso che sia la più importante scoperta che abbia fatto in vita mia. Anche adesso va così. Scrivo per addomesticare le mie paure. Alla fine, la mia sola aspirazione – come, suppongo, per tutti gli scrittori – è di avere una piccola casa, qualche arnia con le api e un giardino. E che faccia caldo. L’Italia andrebbe benissimo.




Traduzione di Giuseppe Dell’Agata

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