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Scrivere è volare. Psicopompo di Amélie Nothomb

La passione per il volo degli uccelli e delle anime nell’aldilà nel trentaduesimo romanzo dell’autrice belga

L’animale che ci somiglia non per forza è lo spirito guida eletto. Lei, forse, di primo acchito un eclettico insetto nel buio. 
L’esemplare impersonato da Amélie Nothomb ha invece le ali, un becco, la pruriginosa ferocia di coloro i quali devono far spola tra sopra e sotto, su e giù, alto e basso. In Psicopompo (Voland, traduzione di Federica Di Lella), da lontano, come una garza che misuri la laguna prima di traversarla tutta, la scrittrice nippo-belga spiega gli uccelli della propria esistenza. Quelli che ha voluto essere, in riconoscenza al richiamo, via via, dell’allodola interiore. «Con la fronte incollata alla finestra osservavo gli uccelli del giardino. (…) L’uccello sarebbe stato il mio mistero. Era inspiegabile. La magia fece effetto all’istante. L’uccello diventò una presenza permanente in me. Fu come se avessi acquisito di colpo la visione laterale. Vissi quel cambiamento come una rivoluzione: vedere il mondo di lato era una tale novità che non sapevo cosa dire». 

Psicopompo

Dice adesso, dentro un libro a cassettoni che inizia con una favola tremenda e finisce nell’annuncio di un sequel. Tornano i viaggi, tra infanzia e adolescenza, che tanto le segnarono i tratti (lo sturpo, l’anoressia) e il tratto della penna (esercizio forsennato).
Mentre si gode un’apparecchiatura nota, a un certo punto ci si chiede, pur senza noia, il perché del ripasso, del bigino, e lei ascolta, risponde, puntuale.
La veggente, dopo averla presa alla lontana, infine (siamo a pagina 80 su 105) spiega che al di là delle simpatie ornitologiche è avvezza all’aldilà vero e proprio – che con il volo ha molto a che fare. Psicagogi illustri, ovvero “conduttori d’anime”, furono Orfeo, Ermete, Caronte, Apollo. Nothomb è uno psykhopompós dei giorni nostri; leggermente diverso da loro, galleggianti e trionfalmente prostrati, ma comunque metodico, serio e sentenzioso. 

«Accompagnare l’anima del defunto: ammesso che uno accetti questa mansione, bisogna sapere come procedere. Non basta pronunciare le formule di rito». 

La trasduzione della chiara voce dei morti – questo il carico stilistico – inizia con Sete, ove il parlatore è ancora narrativamente morituro ma per certo trapasserà in quanto Cristo in attesa di croce; le croste e le aste sulla cattiveria umana lì stemperano impregnandosi d’amore uguali ai lini che avvilupperanno poi il sacro cadavere: non proprio la classica farina cinica di Nothomb. La quale rivela – qui, ora (ecco!) – di non aver immaginato né immedesimato, quanto riportato, telegrafato. Non senza malagevolezza. 

«La vera difficoltà consisteva nell’assumere il ruolo di psicopompo – rimugina – non era una cosa scontata. La morte, sempre zelante, mi ronzava attorno come attorno a chiunque. Non sempre però la mia reazione istintiva era appropriata. Anzi, quando qualcuno tirava le cuoia, avevo la tendenza a volar via lontano, come suggerisce la vita. (…) Anche Gesù può aver avuto bisogno di uno psicopompo. Diventare lo psicopompo di Cristo è stato sicuramente il mio progetto più ambizioso. Ho rimandato l’impresa finché ho potuto, cosciente della sproporzione tra la mia persona e il soggetto. Sono dovuta scendere in zone pericolosissime». 

Si tirano i fili, dunque, di un’imbastitura che è confessione morbida, forse per non atterrire. «Scoprire gli uccelli fu scoprire lo sbigottimento», scrive, mettendo il primo punto sull’abito di piume che ancora indossa, nell’ibridata metempsicosi. «Lo sforzo di osservazione mi ha cambiato la vita», continua, sbattendo ali visibili mentre giura il mantra: «Non provare un desiderio inferiore a quello dell’uccello». La cui fatica – nel sollevarsi, nel permanere, nel ridiscendere – è sottostimata dagli ignari sapiens ma non da lei, che lo sceglie proprio per l’indefesso affanno elegantissimo. 

L’autrice punta dito e timpano su una specifica specie che la fece capitolare a Sylhet. Bruttissima, solitaria, misteriosa. «Questo uccello aveva l’aspetto di un drago. Emetteva versi che sembravano fischi di ammirazione. Vederlo da vicino lasciava stupefatti. Due orecchie a punta incorniciavano una faccia da gargouille, che esprimeva una rabbia fuori dal comune. (…) Provai per lui una passione immediata. Il suo nome era quanto mai eloquente. Stando al significato letterale era colui che ingoia il vento. (…) La vera vocazione degli ingoiamento è volare. Avevo il sospetto che avesse scelto di essere insettivoro, proprio per cibarsi in volo». 

È un attimo far prova di mimesi, seguendo le correnti ascensionali del proprio habitat nel proprio termometro: interno casa, alba, gelo. Scrivere è volare e volare è arrivare allo strazio della possibilità retorica per puntare l’oltre. 
«Lo psicopompo non si confonde con colui che accompagna, lo scorta restandogli il più vicino possibile senza pretendere di abolire il fossato che separa un individuo dall’altro», puntualizza Nothomb, «l’uccello è perfetto per questo ruolo, presenza fraterna e pudica al tempo stesso. Dovevo imparare il modo aviario di amare: l’epifania discreta, lo sguardo laterale. Il culmine dell’amore è posarsi sulla spalla dell’altro». 

Ogni testo di A. N. è un trattato sulla morte. Voland (sarà un caso, l’incrollabile fedeltà all’editrice con l’omino svolazzante?) sa che alla stessa ora d’ogni giorno la scrittrice tenterà il balzo fatale. S’avrebbe la tentazione d’accendere un cero. 
«Quando mi metto a scrivere seguendo la mia routine abituale, prendo un ritmo aviario», confida, «mi sveglio sempre più presto, senza consentirmi la minima eccezione, e mi metto subito all’opera. Non vedrete mai un uccello non svegliarsi all’alba o concedersi di restare a poltrire fino a tardi. Esattamente come lui, non vengo a patti con me stessa. Nei giorni e negli anni vivo migrazioni piccole e grandi. Ho ritmi stagionali. Quando arrivo in una stanza d’albergo, faccio il nido». 

Dal figlio di Dio al figlio d’un uomo. 
L’ultimo scritto psicopompo dell’ingoiavento di Kobe è Primo Sangue, biografia nuova (rispetto a La via della fame) del genitore scomparso, Patrick Nothomb. «Non avevo confidato nessuno del carattere psicopompo della scrittura di Sete e della mia scrittura in generale. Tuttavia suppongo che mio padre lo avesse intuito, perché ha cominciato a parlarmi ininterrottamente. Niente a che vedere con il flebile filo di voce con cui mi parlava il mio primo morto. Era la voce di mio padre, riconoscibile tra tutte. Passavano i mesi, la voce paterna non taceva. Mi era di grande conforto. (…) Chi aveva bisogno di chi? Nel caso di Gesù, l’unica bisognosa ero io. Nel caso di mio padre c’era un equilibrio perfetto: io avevo bisogno che lui mi parlasse e lui aveva bisogno che io lo facessi parlare». 

L’autrice vuol congedarsi ton sur ton, augurando tra le righe agli affezionati di… «fare una buona morte». Aggiunge indicazioni, mappature, poiché è cosa “complessa” che «dipende da numerosi fattori. Non posso sostenere di conoscerli, eppure quando qualcuno fa una buona morte lo sento: il punto è andarsene nel momento giusto, dopo aver compiuto quella che sapevi essere la tua missione. (…) La grande missione di un uccello consiste nella crescita del proprio potere psicopompo. Io sono una dilettante». Che a forza di spinte, voilà, per certo, un bel momento, sugli «esotici» tetti del Marais, volerà. 

Immagine di copertina di Dettaglio dal “Giudizio universale” di Michelangelo
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