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Scrivere bene come forma di impegno civile. Intervista a Filippo La Porta

Nel suo recente saggio, Splendori e miserie dell’impegno, Filippo La Porta riflette sul ruolo dell’intellettuale contemporaneo, tracciando un percorso che va da Manzoni a Murgia per mostrare come scrivere bene sia il primo, autentico atto di impegno civile.

Leggere il saggio di Filippo La Porta, Splendori e miserie dell’impegno (Castelvecchi, 2023), significa regalarsi un’occasione per riflettere su un tema complesso, sempre attuale: l’impegno civile.
In poco più di un centinaio di pagine, emerge un’analisi approfondita e onesta che, distaccandosi dalla consueta retorica sull’argomento, procede soprattutto per profili biografici: «da Manzoni a Murgia», recita il sottotitolo. Quindi, come si evince, il libro non si limita a guardare al passato o a offrire un’analisi di tipo storico; piuttosto, mira ad aprire nuove prospettive sulle intenzioni e sulle pratiche della scrittura contemporanea. Nello spiegare il cambiamento del ruolo degli (e delle) intellettuali, la linea temporale tracciata da La Porta si intreccia di continuo alla situazione attuale, dove sembra che a nessuno venga più riconosciuta una vera autorevolezza. Eppure, il messaggio finale di Splendori e miserie dell’impegno è tutto fuorché pessimista, non scade mai in uno scontato disfattismo: nonostante il peso specifico di social media e influencer – termini di paragone ormai obbligatori per chi si occupa di scrittura – la funzione critica del pensiero continua a sopravvivere, e la sfida è proprio quella di recuperarla e renderla vitale.

Al tempo stesso, questa ricognizione ci invita a esplorare il confine tra impegno e “disimpegno”, con il pregio di evitare soluzioni rigide o formule algebriche – l’impegno non è misurabile –, ma, anzi, auspicando un futuro fatto di azioni e produzioni letterarie che siano sempre più consapevoli. In un quadro così articolato, le biografie e le opere delle autrici e degli autori presenti nel volume diventano veicoli non solo per indagare le caratteristiche economico-politiche di una società, ma anche dei modi in cui esse si trasformano. La Porta, con la sua prosa rigorosa e coinvolgente, ricca di guizzi critici e momenti di riflessione più intimi e personali, dimostra che scrivere bene è una forma di impegno intellettuale in sé, e che ogni parola, ogni frase, merita di essere costruita con grazia e attenzione. Il risultato è un testo che si legge con trasporto, ma che non smette mai di interrogare il pubblico, sfidandolo a trovare una propria posizione.

Che cosa significa essere scrittrici e scrittori impegnati?
Una cosa sola: scrivere bene! Se poi vuoi scendere in piazza per la catastrofe climatica o decidi di fare raccolta differenziata questo ti riguarda come cittadino, non come scrittore. Una volta Moravia, alla domanda se credesse in Dio, rispose: «Mi faccia pensare… tutto quello che ho scritto sull’argomento non era originale… dunque non ci credo!». Se uno scrittore per parlare di un argomento usa una lingua piatta e piena di cliché, allora quello che scrive sarà falso, anche contro le sue intenzioni. Scrivere bene non significa calligrafismo, scrivere in gangheri, ma prendersi cura delle parole, avere una scrittura propria, originale e soprattutto “necessaria”. Perfino in un articolo di giornale uno scrittore dovrebbe usare parole che non possono essere sostituite, proprio come accade in una poesia.

Quali sono le principali differenze tra gli intellettuali di oggi e quelli del passato, come Pasolini?
Oggi non esiste più l’intellettuale come autocoscienza della nazione, come guida morale, Pasolini e Sciascia furono gli ultimi rappresentanti di questa figura, ed entrambi scrivevano regolarmente sui quotidiani, potendo contare su un enorme ascolto. Oggi a nessun intellettuale viene riconosciuta più alcuna autorevolezza, come sappiamo “uno vale uno”, e poi nessuno legge più i giornali…
La cattiva notizia è che prevale il conformismo, un certo appiattimento, la mancanza di maestri e punti di riferimento, abitiamo tutti un immenso orfanotrofio culturale, ma la buona notizia è che il pensiero critico – ossia dissidente, non allineato, disturbante – non è finito con loro, con quei due grandi scrittori eretici, piuttosto si è disperso nei social, solo che poi dobbiamo noi ricomporre con attenzione questo mosaico. Negli anni Settanta si diceva, con un linguaggio un po’ ideologico, che bisogna rifiutare il “ruolo” dell’intellettuale, legato a privilegi di potere, a una rendita di posizione, a un “mandarinato”, e invece difendere la “funzione” dell’intellettuale. Ora la funzione intellettuale è presente, direi aristotelicamente, in ogni essere umano. Non è altro che la funzione critica del pensiero, quella capace di farci uscire dallo stato di minorità.  Questa funzione dovrebbe starci a cuore, non il poeta-vate, lo scrittore profetico o l’intellettuale come predicatore e educatore di anime.

Quali critiche rivolge al cosiddetto “neo-impegno” e quali caratteristiche negative attribuisce a questo fenomeno?
Non mi piace quando si riduce a una moda, a una strategia di marketing, a uno status symbol che fa sentire più nobili. Però oggi esiste anche la moda opposta del disimpegno, dell’intrattenimento a tutti i costi, della coazione al divertimento, della letteratura-cabaret. Insomma non ne farei il bersaglio principale.

A pagina 21, in apertura del profilo su Antonio Gramsci, cita una frase molto potente: «[Uno non può interessarsi a una comunità] se non ha profondamente amato creature umane individuali». Questo può essere il fulcro dell’impegno anche oggi?
Se non ami una persona concreta come fai ad amare un popolo? Invece spesso si dichiara di amare popoli, comunità, ideologie, concetti astratti, etc. proprio perché si è internamente aridi, incapaci di amare chicchessia. Ed è altresì fondamentale che ti ami qualcuno, anche una sola persona, affinché la tua esistenza sia giustificata.

A pagina 30, invece, scrive: «Agire coincide con dominare, voler dominare». Si può essere impegnati senza essere attivi?
Un punto delicatissimo. Personalmente ho “agito” molto, e con altri, facendo politica negli anni Settanta, andando in borgata a preparare nientedimeno che la “rivoluzione”. La rivoluzione fu in fondo la grande idea della nostra generazione, ma al tempo stesso la sua più micidiale illusione (l’illusione cioè di una ricetta miracolosa che potesse risolvere ogni problema, privato e pubblico, quasi magicamente, e che potesse darci il paradiso in terra). Ora, quello che non andava bene era: 1) aver sostituito la religione con la politica (alla fine i paradisi in terra sono tutti regimi dispotici che si fanno tornare i conti con la forza); 2) l’ossessione di mobilitare gli altri, di organizzarli, di risvegliarli, il fatto di autoeleggersi ad avanguardia… Il nostro desiderio inconscio – di noi pasolinianamente studenti borghesi – era quello di dominare, di guidare le masse.
Brancati scrisse che l’attivismo porta all’omicidio. Che fare allora, elogiare il disimpegno e l’inerzia? No, certo. Anzi, bisognerebbe fare tutto quello che uno sente di dover fare, per gli altri e per se stessi, anche da solo, senza delegare niente (un anarchico, Colin Ward, parla di welfare dal basso), ma senza alcuna hybris prometeica, senza l’ansia di riparare il mondo (che resta sempre quello!), o di rifare la natura umana, senza divinizzare la Storia (che in fondo è un “mattatoio”, come diceva Hegel, e l’unica felicità sperimentabile sulla terra è quella che strappiamo alla Storia).
Perfect days di Wim Wenders è l’elogio di una vita saggia, perfettamente risolta, di una routine felice fatta di giornate metodiche, ripetitive, ma riempite di tutto ciò che basta. Dal punto di vista sociale lui che è di estrazione medioborghese ha scelto l’invisibilità, l’autoannullamento, ma non ha rinunciato a dare ordine alla sua esistenza, né si priva asceticamente di qualcuno dei suoi piaceri: «Così è come se fosse più ricco» (Wenders). Ora, se una cosa del genere ce la dice Wenders e non un ideologo moralista e pauperista, né qualche improbabile teorico della decrescita felice, dovrebbe pur farci riflettere. Quali sono i “giorni perfetti”? Cedo la parola a Lou Reed: «Proprio un giorno perfetto, bere sangria nel parco, poi, più tardi, quando fa buio, andare a casa». Sono quei giorni in cui non ci affanniamo a rinforzare e potenziare l’io, in cui non inseguiamo ossessivamente il successo o il denaro. Certo, Wenders – profondamente imbevuto della cultura del suo paese – non è un’anima bella, non ci offre una immagine stucchevolmente idilliaca della vita autoappagata. Nell’ultima stupenda inquadratura l’attore ci fa percepire dentro la sua felicità minimale anche il tragico, la parte dell’ombra (potremmo dire: è la condizione umana, bellezza!).
Oggi tendo a riassorbire il vecchio impegno politico in un impegno civico, fatto di autorganizzazione, cittadinanza attiva, creazione di contropoteri, organismi di base, gesti anche individuali ma con potere di contagio sociale. È il “ben fare” di cui parla Dante. Agire dunque individualmente, per cause che ci stanno a cuore, ma indifferenti all’esito. E ricordando Camus: «Mi ribello, dunque siamo». Se mi obiettano che così non c’è la “sintesi”, garantita invece dai partiti, rispondo che la sintesi è a sua volta una illusione, e diffido di una sintesi fatta da un politico “di professione”…  i partiti inoltre hanno come unico fine la propria conservazione e crescita.

Mi ha sorpreso trovare delle pagine su Alberto Savinio. Ci descrive il suo “surrealismo civico”?
Be’, è la continuazione del discorso di prima. Impegnarsi anzitutto nella propria sfera quotidiana (su cui abbiamo un minimo di controllo). Decostruire il potere e le sue logiche nel proprio lavoro, nel proprio mestiere, nelle relazioni con gli altri. Savinio non dava alcun peso ai grandi personaggi storici rispetto alla gente comune. Mi viene in mente Tolstoj che, unico, volle ridicolizzare Napoleone e le sue velleità di governare il mondo; di fronte all’immensità del cielo Napoleone è un niente!  Per farlo occorre una certa immaginazione morale (che aveva un “barbaro” come Tolstoj), il senso del possibile, non meno importante del senso del reale.

Le scrittrici e gli scrittori possiedono ancora la forza per incidere sulla società dal momento che il loro raggio d’azione si parametra con quello di figure come gli influencer?
No, non ce l’hanno più. Ma non ne farei una sciagura. Da una parte incidono sulla società quando scrivono libri che vendono migliaia di copie, dall’altra se diventano personaggi pubblici, icone mediatiche come Saviano, allora certo hanno una responsabilità in più. Devono saper usare la propria notorietà per un fine buono.

Murgia, amatissima e criticatissima, è citata nel sottotitolo. Cosa ne pensa a proposito del suo lascito?
Non grandissima scrittrice ma in fondo neanche le interessava più di tanto. Intellettuale combattiva, spesso acuta, spiazzante, e soprattutto capace di una dimensione di autenticità che tutti sentivano subito, impegnata a metterci il corpo. E, nell’ultimo periodo, quello della malattia, incline a difendere un suo spazio interiore dal rumore di fondo. 

Quali profili avrebbe voluto inserire e invece sono stati esclusi? Perché?
Alcuni scrittori di “destra”.
Prezzolini, Malaparte, Berto… In un certo senso tutti “maledetti”, tutti per definizione dalla parte del torto, e dunque per me interessanti. Ma poi anche Cassola, con la sua nobile oltranza nonviolenza, Bassani con la sua militanza ambientalista, Ceronetti con il suo vegetarianismo dai tratti meravigliosamente integralisti («la carne è un’angosciata abitudine dei vecchi»), o Balestrini che scrive un libro nel 1971, Vogliamo tutto, ingegnoso volantino e manifesto politico (estremista) composto attraverso un montaggio…

Ho apprezzato il fatto che lei non si sottrae a un confronto con Walter Siti, il quale ha pubblicato Contro l’impegno nel 2021. In che modo le vostre riflessioni si differenziano?
Stimo e apprezzo Walter Siti, insieme facemmo un viaggio a Calcutta nel 2001 (per un convegno pasoliniano), un viaggio di cinque giorni che oggi mi sembra di aver sognato, una fantasticheria esotica, malata, straniante… La cosa che più mi divide da lui è la sua polemica contro la retorica buonista che diventa diffidenza per la bontà stessa (e il pregiudizio, legato a tale critica, che il male è più interessante del bene, e invece per me solo più noioso).

Infine, sostiene che – potenzialmente – tutti siamo intellettuali. Ci spiega questo concetto?
Ne accennavo prima, parlando della funzione intellettuale. Per san Tommaso tutti abbiamo l’intelletto passivo, non vi è un abisso tra intellettuali e gente comune. A volte questo intelletto si attiva, quasi sempre in una relazione autentica con un’altra persona, per poi tornare a uno stato di latenza (ma non sparisce mai del tutto, sia chiaro). In questo sono “populista”. Per dire, il gommista o il ciabattino di Testaccio – quartiere popolare dove sopravvivono alcune attività artigianali – possono anche dire cose più profonde di quelle che dicono filosofi come Cacciari e Agamben, che hanno letto tutti i libri. Non è che gli intellettuali sono più intelligenti degli altri, solo fanno un uso “professionale” dell’intelletto, ma spesso diventa un uso burocratico… quanti docenti universitari smettono di pensare e solo amministrano il proprio ruolo di potere. Aggiungo che sono populista in una accezione opposta a quella della nostra premier: non penso affatto di venire dal “popolo” (ammesso che si possa parlare oggi di un solo popolo), anzi chi ritiene di venire dal popolo e di esserne l’unico portavoce non è più interessato ad ascoltare il popolo (basta che ascolti se stesso, cosa meno faticosa!), mentre io sono interessato ad ascoltare il gommista e il ciabattino, il loro intelletto possibile!





Photo Credits
Copertina – Glenn Carstens-Peters su Unsplash




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