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Sono tante donne, ma non sono nessuna. “Santa” di Rosanna Turone

Un romanzo d’esordio, un percorso di costruzione e decostruzione dell’identità di una donna

Se è vero che i sogni plasmano l’esistenza delle persone – l’esistenza in avvenire, che sta formandosi giorno per giorno – quello di Santa, più di altri, è così imponente, ambizioso, impossibile direbbero i più disillusi, da definirla tutta. Santa sogna di essere amata incondizionatamente. Ma Santa non è amata, non è voluta – la famiglia d’altronde desiderava un maschio, l’ha abituata a gesti d’affetto «occasionali» e sporadici. Questo è il leitmotiv che risuona nella sua testa da sempre, nel paesino della Calabria in cui è nata e cresciuta.

Inizia così il romanzo d’esordio di Rosanna Turone, che si aggiunge alla fila di scrittrici che compongono la collana che l’editore NN definisce Le fuggitive.

santa

Nell’incapacità di autodefinirsi senza gli strascichi delle aspettative altrui, prime fra tutte quelle dei familiari più stretti, non mancano i moti di indipedenza, che mostrano già alcuni degli scorci caratteriali di questa protagonista: Santa vuole sì sottrarsi all’influenza che subisce; vuole emanciparsi dalla vita di provincia; vuole essere, appunto, amata. Ma qualunque decisione non può semplicemente capitare, come piovuta dal cielo; se i modelli culturali in cui è immersa fino alla gola la costringono a mettersi da parte, ad assecondare i capricci isterici di sua sorella, a soprassedere su moltissime cose che da bambini neppure si conoscono, l’unica conseguenza possibile è che anche negli snodi importanti della propria vita Santa non sia mai del tutto libera. La scappatoia, nell’ombra di un’antica tradizione alle cui briglie si è ancora legati, è un uomo. Gianni è siciliano, era un compagno di scuola di Santa, rincontrato poi dopo anni, in spiaggia: i primi momenti di quell’incontro sono già rivelatori di alcune certezze. La prima è che è lui lo strumento per andarsene da casa, la seconda che non sarà l’uomo della sua vita.

Se Santa è frammentata, costruita e decostruita più volte dallo sguardo di chi la circonda e da sé stessa, Gianni è un esemplare completamente formato. È un vincente, incurante dell’opinione altrui, di sicuro non della donna con cui vive e da cui avrà un figlio. Se degli errori sono stati fatti – e ne sono stati fatti molti, più o meno gravi – non è cura di Gianni occuparsene; se Santa soffre, o piange, non sembra essere un suo problema. Il suo giannismo avrà ben presto degenerazioni violente e furiose, rattoppate sbrigativamente, come i buchi nel muro martoriato dai suoi scatti d’ira coperti da quadri appesi.

Tuttavia, nella stessa casa di infelicità e sofferenza, c’è un’altra dimensione, quella della maternità: l’identità trova il proprio safe place, uno spazio di autentica affermazione del sé, liberato dalla compravendita dei sentimenti. È la prima volta in cui Santa può finalmente imparare a declinare i propri verbi all’attivo. Nel rapporto con suo figlio trova ciò che niente e nessuno erano riusciti a fare fino ad allora, liberarla dal peso di una mano che incombe nefasta sopra di lei. Sono queste le pagine più commoventi del libro, in cui l’ironia tagliente di Turone e del suo personaggio lasciano il posto alla bellezza dell’amore incondizionato.

Santa resta, però, una persona ancora irrisolta, in certi casi deliberatamente, inadatta all’immobilità e per questo sempre con un piede già fuori dalla porta. Non appagata da ciò che ha, pronta a scomporsi (o a lasciarsi scomporre) di nuovo. Svincolarsi una volta per tutte da Gianni è inevitabile, un diktat morale in quanto donna e in quanto madre; ma resta il fatto che nuove cose stanno per accaderle. Anche davanti al cambiamento – l’ennesimo, da quando i genitori aggiunsero una stanghetta alla O di Santo per dare una parvenza di normalità all’arrivo della nascitura – le vecchie abitudini sono dure a morire.

È nella contraddizione di questo personaggio che sta la riuscita del romanzo: da un lato la spinta a volersi affidare a qualcuno che la ama, a realizzare quel sogno; dall’altro la necessità viscerale di sottrarsene. Donna multiforme, cangiante, Santa è iconica, e lo è il suo sguardo, che la asseconda: come sarebbe osservare sé stessa con gli occhi di un uomo? si piacerebbe? si troverebbe attraente? Anche l’autoerotismo assume, per lei, nuove forme di scoperta.

Nella nuova, ma mai completamente sconosciuta, provvisorietà, c’è forse ancora una soluzione, un disperato tentativo da provare, il ritorno alle origini. La necessità di rifugiarsi nei luoghi dell’infanzia e della giovinezza, laddove c’era qualcun altro a scrivere la sua storia. Con il ritorno a casa, però, non emerge solo quel bisogno di sicurezza di cui Santa ha sempre avuto fame, c’è il dolore della perdita e la consapevolezza di quanto le scelte che si è sentita in dovere di compiere siano cariche di disperazione e la rendano una sopravvissuta.

«È una bugia, è una bugia l’istinto di sopravvivenza. Ci sono momenti nei quali l’istinto di sopravvivenza non c’è proprio, ci vuole il coraggio per sopravvivere, non l’istinto. E io in quel momento ero una vigliacca, una che non ce la faceva più a vivere la vita che aveva scelto.»

Se riuscirà – oppure no – a fermare la china della sua vita, è affidato al meraviglioso finale del romanzo scritto da Turone.


In copertina, scatto di Matthew Henry su unsplash

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