Search
Close this search box.

Ritorno in Libia

“Amici di una vita” di Matar oscilla tra ciò che si era e ciò che si è dovuti diventare, alla ricerca di una strada verso casa

Un ragazzo nemmeno ventenne sale da solo su un aereo a Bengasi, in Libia, con destinazione Londra. È il 1983 e passerà nel Regno Unito i tre decenni successivi. L’uomo che apre la narrazione in Amici di una vita – romanzo scritto da Hisham Matar e pubblicato da Einaudi – è oramai sulla soglia dei cinquant’anni, ma condivide con quel ragazzo un cuore ancora geograficamente dilaniato dalla distanza. Matar costruisce magistralmente un intreccio di vite, di esili e di ritorni – alcuni possibili e altri ostinatamente contrari, alcuni concreti e altri solamente immaginari – mentre delinea la storiografia recente della Libia. Il ventenne e il cinquantenne sono le due versioni di Khaled Abd al Hady che più lo tengono in equilibrio, il ragazzo che è partito e l’uomo che non ha più fatto ritorno.

Khaled vive a Bengasi, in Libia, vicino al lungomare, in una casa ottomana. Suo padre è uno storico, appartenente alla generazione che è riuscita a laurearsi dopo l’indipendenza dal dominio italiano, e costretto, con il golpe del 1969 di Mu’ammar Gheddafi, a ritirarsi dalla vita accademica. Non solo storici, ma anche giornalisti ed editori – l’intero organo d’informazione libico e chiunque criticasse apertamente la dittatura di Gheddafi – furono costretti a trovare una vita diversa: per la stampa questo significò installare la sua base operativa a Londra. Tuttavia nemmeno lì si era del tutto al sicuro, poiché il regime cominciò a condurre una campagna (conosciuta come «assassinio della parola») volta a liberarsi degli oppositori in modo da dare spettacolo. Fu così che venne assassinato il giornalista radiofonico della BBC in lingua araba Mohammed Mustafa Ramadan, che nel marzo del 1980 decise di leggere in diretta un racconto di un giovane studente libico del Trinity College di Dublino, Hosam Zowa. Il racconto si intitolava Quel che è dato e quel che è preso e traduceva in parole «l’atmosfera claustrofobica della storia che si manifestava così orribilmente nell’inspiegabile mancanza di reazione dell’uomo», concludendosi con la forza di opporsi a chi ci fa del male. Khaled rimane incantato dalla forza che le parole riescono ad assumere, rimanendo altrettanto rapito dal saggio di un professore inglese, Henry Walbook, dal titolo Il rilievo del significato nelle infedeltà di traduzione – «Qualunque cosa tocchiamo viene alterata», affermava, e non è possibile vivere senza lasciare traccia del nostro passaggio. Persuaso e incantato dalla letteratura, Khaled decide di far domanda per studiare inglese all’Università di Edimburgo, ottenendo una borsa di studio governativa. 

Lì incontra Mustafa al Touny, anch’egli libico – un incontro destinato a cambiare la traiettoria della sua esistenza. Con Mustafa, Khaled sente la vicinanza delle parole, della letteratura, di autori scomparsi da tempo, ma anche di ideali e di ideologie politiche condivise così lontano dalla terra natia. Sono proprio queste ideologie, e la fede di Khaled nell’amico, a essere decisive nell’arrivo dei due ragazzi a Londra, nell’aprile del 1984, per manifestare contro la dittatura davanti all’ambasciata libica. Tutto precipita quando dall’interno dell’ambasciata partono dei colpi di mitragliatrice: sparando sui manifestanti, e quindi sugli oppositori al regime, entrambi i ragazzi vengono colpiti dai proiettili. Sebbene i feriti ammontino a una dozzina, ben presto il governo inglese di Margaret Thatcher autorizza il ritorno in Libia dei funzionari dell’ambasciata con immunità diplomatica. «Giorno della vittoria»: così viene chiamata la sparatoria del 1984, con la conseguente sospensione di tutte le borse di studio, almeno fino a quando gli studenti non avessero confermato la loro posizione. Khaled e Mustafa rimangono in convalescenza in ospedale per diverso tempo, perdendo di fatto i sussidi economici e trovandosi ora in una situazione compromessa verso la fedeltà al governo libico. 

Khaled deve ricominciare da zero un’altra volta: si trova un lavoro, ricomincia a studiare in un’università differente, si trasferisce nell’appartamento di Shepherd’s Bush, a Londra, dove finirà per passare i decenni successivi – nascono nuove amicizie, nuove fugaci appartenenze, nuovi luoghi d’incontro. Negli anni continua ad avere regolarmente notizie dalla sua famiglia, che non comprende appieno come mai quell’unico figlio maschio non voglia far ritorno. Come spiegare, si chiede Khaled, che non può tornare per un errore di giudizio, per una scelta fatta a cuor leggero; che si è fatto traviare, che si è inimicato il governo, che un suo ritorno potrebbe metterli tutti in pericolo? Inizia, così, la costruzione di un’esistenza fragile, come può essere fragile la vita di ogni esule – ma per quanto fragile, afferma Khaled, «ha richiesto tutto ciò che avevo e se me ne vado temo che non avrò la forza di tornare e allora sarò di nuovo perduto».

Decostruirsi dal paese che ci ha visto nascere per ricostruirsi attorno a una cultura e lingua diversi: Khaled ci riesce, fabbricando le fondamenta della sua nuova esistenza con l’aiuto dell’amicizia. Agli estremi opposti di quel triangolo d’amicizia libico ci sono Mustafa, rivolto perlopiù al passato, e Hosam Zowa, proiettato invece più in avanti. Khaled si trova nel mezzo, pervaso da una malinconia esistenziale: riesce ancora vividamente a evocare i dettagli della sua infanzia, nutrendo, allo stesso modo, un legame inspiegabilmente magnetico con la città che gli ha offerto una nuova casa. Non capendo appieno a cosa aggrapparsi, Khaled si fonde nell’amicizia

Khaled e Hosam si conoscono a Parigi: Khaled vi si trova per assistere un’amica in un intervento, mentre Hosam vi lavora – quello stesso Hosam Zowa che, anni prima, aveva scritto un racconto critico verso la dittatura, racconto che Khaled e Mustafa non avevano mai dimenticato. Nasce un’amicizia e un legame profondo, che riporta Hosam a Londra nel 1996 dopo un pellegrinaggio decennale. Nei quindici anni successivi Khaled, Hosam e Mustafa costruiscono un legame triangolare reso forte dalla stessa nostalgia di non poter tornare nel paese che li ha messi al mondo, dalla fusione di una cultura d’origine e una d’adozione, dal viscerale sentimento d’amore verso una famiglia che non possono riabbracciare. I tre giovani si amalgamano alla vita dei loro coetanei londinesi, intrecciando nuovi legami e nuovi sentimenti, sentendosi tuttavia in «una città fatta per le ombre» dove persone come Khaled e altri esuli «possono viverci una vita intera restando invisibili come fantasmi». 

Non tutto permane, però, immutato dal tempo. «Al pari del fiore, la libertà verrà, e per quanto l’inverno sia altrettanto certo, non può durare per sempre»: così Khaled prega quando nel febbraio del 2011 ha inizio la Primavera araba, destinata a spezzare l’equilibrio delle loro esili esistenze. Tutto inizia con la speranza di cambiamento che infiamma il Nordafrica nel febbraio del 2011: Tunisia ed Egitto vengono infervorate da manifestazioni di piazza volte a scacciare i tiranni che avevano governato i paesi per decenni con furia e terrore. Quando il 17 febbraio la rivoluzione inizia anche in Libia, sulla strada degli amici si apre un bivio: tornare e unirsi alla milizia armata, oppure continuare la propria esistenza adulta laddove era stata innestata, senza coinvolgimenti con la rivoluzione. Mustafa decide di tornare in Libia e diviene presto uno dei capi della milizia. Anche Hosam torna: inizialmente per stare vicino alla sua famiglia, anche se ben presto sente di doversi unire anche lui alla lotta armata. Solamente in quel momento Khaled si rende conto di non sentirsi più politicamente coinvolto negli eventi che stanno infervorando il suo paese. Decide di rimanere a Londra, solo, non senza nutrire dei dubbi, non senza sentirsi comunque schiacciato da sentimenti che non riesce a decifrare: rimorso, apatia, mancanza di coraggio – oppure coraggio di non farsi coinvolgere, dopo aver trovato un suolo stabile? Ben presto sia Mustafa che Hosam diventano parte del comando armato che, il 20 ottobre, da Sirte, consegna alla nazione la morte del dittatore Gheddafi. Tuttavia le loro strade si dividono, di nuovo, al bivio che si apre in seguito. Dopo vari colpi di stato e mentre la Libia continuava a precipitare nel caos, solo Hosam fa ritorno da Khaled, cinque anni dopo essere partito, nel 2016, prima di cominciare una nuova vita negli Stati Uniti.  

Hisham Matar infonde nella sua scrittura nostalgia e malinconia, solitudine e un forte desiderio di riscatto: per la propria famiglia, per il proprio paese, per un passato troncato bruscamente e un futuro incerto. Ma il cinquantenne Khaled che apre il romanzo Amici di una vita ripercorre il legame, l’amicizia, che, più di ogni altro, gli ha fornito sostentamento mentre cercava, a modo suo, di costruirsi un’esistenza stabile lontano da un paese che ormai era profondamente cambiato rispetto a come l’aveva lasciato.  Lui stesso non era più il ragazzo che era partito nel lontano 1983. «Quando vivi lontano per molto tempo», scrive Hosam, «qualcosa si rompe: legami, modi di essere e giorni». Nei decenni passati lontani, esuli e paesi d’origine percorrono inevitabilmente strade diverse – talvolta parallele, talvolta perpendicolari, ma non sempre con punti d’incontro che riescano a far semplicemente saltare da un’esistenza all’altra. Alcuni riescono a trovare la strada di casa, come Mustafa; alcuni la trovano ma non è più la casa che conoscevano, come Hosam. Dopo aver dato tutto quello che si era per ricostruirsi in una nazione diversa, come Khaled, la strada di casa è qualcosa che oramai ha senso solo se percorsa in senso inverso.

«Tornare. Finora quella parola aveva sempre significato andare da loro», scrive Matar, dove quel loro simboleggia il legame familiare in Libia. Ora, casa è dove si è riusciti a sopravvivere, nella tranquillità della quotidianità londinese, nella vita minimale che ci si è costruiti, dando ciò che si era per ciò che si è dovuti diventare.

In copertina: foto di Africa Rivista

Immagine di copertina di Africa Rivista
categorie
menu