«C’era un uomo chiamato Veterlide Glumssøn che veniva dai fiordi orientali dell’Islanda […]».
Nell’esordio essenziale della La saga di Vigids (Utopia Editore, Milano 2021) è difficile ravvisare tutta la potenza travolgente che di qui a poche pagine s’impossesserà del lettore, trasportandolo in un’epica scarna, rapida e agghiacciante, plasmata sulle pareti di roccia dei fiordi norvegesi, resti di antiche glaciazioni. Uno scenario senza tempo, freddo e ostile, che porta l’eco delle fiabe popolari, dei racconti leggendari, delle gesta dei guerrieri vichinghi.
La materia del racconto – Fortællingen in danese, “storia”, dove si sente forte il contributo della trasmissione orale (to tell) – sembra trarre origine da un mondo sotterraneo in continuo tumulto, che lascia riaffiorare simboli e archetipi appartenenti ad un passato remoto.
Così i personaggi Viga-Ljot e la bella Vigdis, entrambi nel fiore degli anni, appaiono come i due “eroi” del racconto:
«Ljot cominciò presto a condurre vita da adulto: fin dall’età di quindici anni prendeva parte alle spedizioni vichinghe insieme ai figli di Torbjørn, guadagnandosi subito fama di guerriero abile e coraggioso […]. Era slanciato, aveva spalle larghe, la vita sottile come quella di una donna e le membra proporzionate. I tratti del suo viso erano belli e fini: era scuro di carnagione, con la bocca pallida, grande e prominente. Aveva gli occhi azzurri e i capelli lunghi castano scuro. Intorno alla testa portava una fascia di seta […]».
La figura di Vigdis, invece, viene presentata la prima volta come oggetto di una visione corale, che si staglia contro la luce vibrante del camino: «Alla luce videro che era molto bella, slanciata e ben fatta, la vita sottile, il seno alto e sodo. Aveva occhi grandi e grigi e i capelli le arrivavano alle ginocchia: erano di un biondo scuro, lucenti e folti». Da queste primissime, evocative immagini (Vigdis comparirà spesso accanto al fuoco, che lascia indefiniti e mutevoli i contorni delle cose) è arduo cogliere la luce obliqua e sinistra che Sigrid Undset proietta fin da subito sui suoi personaggi. Nonostante l’eleganza e la scorrevolezza del testo, ci imbatteremo, poche righe più avanti, in una tensione che getterà un’ombra tragica sulla vicenda. Una tensione narrativa, letteraria, di costruzione delle situazioni e del contesto che ci farà immediatamente riconoscere nella Undset una grande scrittrice.
Il gioco di sguardi tra i due, all’apparenza innocuo, si trasforma repentinamente – l’essenza della tragedia è nella trasformazione – in qualcosa di più grave e pericoloso:
«Vigdis non sembrò gradire molto il modo in cui la guardava […]. Ljot si sedette a sua volta in modo da poter vedere Vigdis. Un attimo dopo Vigdis gli lanciò un’occhiata furtiva: i loro occhi si incontrarono e la fanciulla distolse lo sguardo arrossendo. Ma subito dopo tornò a fissarlo con una tale intensità che questa volta toccò a Ljot abbassarli».
Nel discutere su come debba venir condotta l’ospitalità di Gunnar nei confronti dell’equipaggio di Veterlide e Ljot, Vigdis s’intromette, con un commento ironico nei confronti di Ljot, che suggeriva di lasciare i suoi uomini a bordo della nave per non disturbare oltre i servi di Gunnar. Gunnar la riprende, senza però adirarsi con la figlia. Da questi elementi dovremmo aver dedotto che l’ambientazione è di epoca medievale.
Gli storici più sensibili direbbero che fare menzione del termine “medievale”, che riguarda peraltro un lasso di tempo eccezionalmente ampio, è del tutto irrilevante ai fini di un inquadramento temporale. Per di più, i connotati negativi che il termine ha assunto nell’uso comune, come qualcosa di retrogrado, avulso dal progresso e dalle conquiste dell’Età Moderna, sono del tutto ingiustificati. Basti pensare alla credenza diffusa che coinvolge la cosiddetta “Caccia alle streghe”, fenomeno considerato medievale per eccellenza: attestato, invece, nel periodo di massima diffusione tra il 1500 e il 1600, cioè in piena Età Moderna.
Tuttavia, nel tempo sospeso che è proprio del racconto, le donne non godono certamente del diritto di ironizzare a tavola, interrompendo una discussione tra soli uomini. Infatti: «Ljot, ridendo, replicò: “Non l’ha certamente detto per cattiveria e, del resto, non è il caso di dar troppo peso alle parole di una giovane fanciulla”». Suona estremamente attuale, oggi, questo scambio di battute, dove la questione femminile ha ancora degli aspetti irrisolti e problematici nella nostra società.
Nonostante i nostri comincino a nutrire un certo interesse l’uno per l’altra, l’attrito iniziale, il punto nodale dell’intera vicenda, è già stato scoperto: Vigdis è giovane e di carattere, non ha nessuna intenzione di «sottomettersi a un marito» come dirà Veterlide, poco più avanti, a Ljot. Ljot invece comincia a nutrire sentimenti di possesso nei confronti di Vigdis e reclama il proprio “diritto” su di lei – “diritto” di possederla, ovviamente. Ljot la vuole per sé, le cose precipitano rapidamente e dopo essersi rivelato come un personaggio distruttivo e spietato, abusa di lei. La tragedia si è compiuta, ciò che lega Viga-Ljot a Vigdis non è l’amore: è il dolore.
Ora è l’inizio vero e proprio, l’apertura di una ferita doppia: da un lato Vigdis rimane incinta, dall’altro il disonore da lei subito si riverserà sul destino della sua famiglia e dei suoi possedimenti, costringendola a fuggire con suo figlio. Per Ljot è l’inizio della ricerca impossibile di un gesto riparatore, della maturazione della colpa e dunque della pena, perennemente tormentato dalla maledizione che Vigdis ha scagliato su di lui: «E io ti auguro la peggiore delle morti. E che tu possa vivere a lungo e infelice, tu e tutti quelli a cui vuoi bene. E che tu possa veder morire i tuoi figli, sotto i tuoi occhi, della morte più atroce». Vigdis e Ljot vivranno due vite separate e contrapposte, entrambe però nell’attesa drammatica di rincontrarsi.
Al tempo in cui l’autrice scrisse questo testo, (doveva avere 27 anni) nel 1909, in un’Europa che andava delineando i nuovi, precari equilibri tra potenze che sarebbero poi confluiti nel primo conflitto mondiale, cominciava ad affacciarsi il concetto di “In-conscio”, messo al servizio della nascente psicanalisi dal neurologo Sigmund Freud. Proprio la psicanalisi ha saputo scandagliare nel profondo quel complesso oscuro che si colloca tra il somatico – quindi il corporeo – e lo psichico, di cui la scienza non era in grado di rendere conto e che relegava nell’irrazionale.
Ora, gran parte delle elaborazioni proposte da Freud agiscono cercando di portare alla luce le connessioni fra i simboli e le immagini che popolano la nostra vita psichica. La mitologia greca gioca un ruolo chiave nell’esemplificazione dei fenomeni inconsci che condizionano i nostri comportamenti e i nostri sintomi. Fra tutti l’Edipo, simbolo dell’amore incestuoso che lega il bambino alla madre. Sigrid Undset sembra rileggere, dal punto di vista della Donna, alcune delle grandi questioni poste dalla psicanalisi: la vita che è vita segnata da un trauma, l’essere Madre, la formazione del senso di colpa. Vettore del racconto è il dolore scaturito dal male, e questo dolore assume due differenti connotazioni: quella di Vigdis, che ha subito la violenza e che soffre dell’incapacità di arrecare danno al suo carnefice, cercando vendetta; e quella di Ljot, che porta la colpa.
Il tema della colpa è il grande tema che unisce letteratura, religione e psicanalisi. Ogni uomo deve fare i conti con il proprio senso di colpa: per Vigdis sarà l’abbandono del figlio, l’odio nei confronti del figlio, l’incapacità dunque di essere Madre. Dopo la morte del padre Gunnar, Vigdis trova rifugio presso una comunità di fuorilegge nascosti nei boschi. Al cospetto del Re cristiano Olav, Vigdis chiede aiuto per recuperare la sua fattoria a Vadin e si fa battezzare cristiana. Costruisce così una comunità intorno a sé e fa erigere una chiesa. Il prete chiamato a curare la chiesa racconta una leggenda:
«Un tempo viveva a Odinsø una donna. Si chiamava Tora ed era molto bella. Ma fu sedotta e, per non subirne l’onta, non disse niente a nessuno e gettò il bambino in mare. Un giorno si ammalò così gravemente che perse i sensi e giacque nel letto come morta. Proprio allora le parve che un uomo entrasse nel tumulo; era tutto avvolto in un mantello nero, la prese per mano e le disse: “Alzati, Tora, e seguimi”».
L’uomo col mantello conduce Tora in una valle profonda, dominata da un meraviglioso castello dorato sulla sommità della montagna. Ma sui pendii scoscesi che circondano la vallata c’è una schiera di bambini abbandonati, malconci e bagnati. Una visione orrenda che smuove in Tora un’immensa pietà. L’uomo col mantello si rivelerà essere Cristo: «Tora, il bambino che più tieni stretto al seno è il primo figlio che hai avuto. A tutti questi piccoli è stato impedito di vivere e di imparare a percorrere la strada che porta a me».
La maternità di Vigdis ci appare struggente e sublime: nonostante tutto, afflitta dal senso di colpa, accudisce e alleva il figlio Ulvar, in una tregua apparente che lascia intravvedere spiragli di luce e serenità: «Mamma, tu mi avresti aspettato in quella valle fino alla fine del mondo?» chiese. «Credo che ne saresti stata capace». Vigdis lo abbracciò e rispose: «Ho avuto anch’io modo di scoprirlo una notte, come è accaduto a Tora. E andrei fino in capo al mondo per proteggerti il giorno che tu dovessi aver davvero bisogno della tua mamma».
Tuttavia Vigdis non riuscirà a proteggere fino in fondo il figlio dalla sorte che lo attende. Ulvar per Vigdis è anche l’unico che può colmare la sua sete di vendetta, uccidendo il Padre. Di nuovo l’analogia con la psicanalisi ci aiuta a dare un profilo più netto a questi passaggi. La Medea che uccide i figli per vendicarsi del tradimento subito, così come il parricidio compiuto per liberarsi dell’ostacolo del padre che impedisce l’amore madre-figlio. Tuttavia non sarà il gesto di morte a dare pace al tormento senza fine che attanaglia Ljot e Vigdis in una morsa violenta. Vidgis e Ljot sono pur sempre legati da una relazione spietata e il perdono che Ljot chiede, senza darsi pace, dopo aver sopportato il compiersi della sua maledizione, è l’unica sua ragione di vita. Il confine sottile che separa ciò che è mostruoso da ciò che è buono e compassionevole scorre tra le pagine del romanzo, in una continua ambivalenza che scuote il lettore.
Scoprire Sigrid Undset – a cui è stato assegnato il premio Nobel per la Letteratura nel 1928 e che peraltro è stata una delle prime intellettuali ad accorgersi della gravità del nazismo – rappresenta un’occasione importante di rinnovamento anche delle più recenti prospettive femministe. Un lavoro complesso e articolato, che si legge d’un fiato e che si avverte come urgente e stimolante sin dalle prime battute, non foss’altro che per questo suo carattere di anti-epica, di rovesciamento di ruoli altrimenti prestabiliti.
Illustrazione di copertina e nel corpo del testo: Edoardo D’Amico