Eccentrica, princesse hérétique, e ancora Gattoparda, come la definiva l’amica Adele Cambria, e madonna indocile: sono solo alcuni tra i tanti volti che Goliarda Sapienza ha mostrato a chiunque si sia imbattuto nei suoi libri, etichette che hanno tentato di definirla e maschere pirandelliane che lei sapeva ben indossare come attrice di teatro diventata scrittrice per vocazione.
Della sua vita si ricordano soprattutto alcuni fatti: l’infanzia catanese, la famiglia anarco-socialista e il rapporto difficile con i genitori Maria Giudice e Peppino Sapienza, la sua depressione e la cura psicanalitica, poi l’incarceramento a Rebibbia, nel 1980, a seguito di un furto. Questi sono tutti veri tasselli di una vicenda complessa che si addensa nell’arte e che richiede la pazienza dell’ascolto per essere riletta e interpretata con una lente diversa.
Della sua carriera, vicina al compagno-regista Citto Maselli come cinematografara (lei stessa si descriveva così), si conosce soprattutto L’arte della gioia, pubblicato integralmente nel 1998 per Stampa Alternativa e rilanciato a partire dal 2008 (da Einaudi), dopo il successo dell’edizione francese: un romanzo che irrompe postumo sulla scena letteraria del novecento e contagia chi lo legge, tanto da essere diventato tra le opere cult degli ultimi anni grazie all’invenzione di Modesta, una protagonista senza tempo, libertaria ed estrema nell’affermazione della sua dirompente vitalità, definita anche a ragione, dai lettori, un’icona dei movimenti LGBTQ.
Per questo suo nome speciale ed evocativo, che contiene etimologicamente la “voce” (“goliardo”, il giullare medievale di corte, ha in sé la “gola” come sede del proprio fare), Goliarda Sapienza è arrivata a essere una figura mitica nel panorama contemporaneo, un’autrice che si è guadagnata uno spazio editoriale mainstream, oggi molto amata anche all’estero. È stato Angelo Pellegrino, custode delle opere, a rilanciarla quando, dai primi anni duemila, ha avviato una riedizione dei libri ma anche la pubblicazione di molti inediti rimasti nell’archivio privato.
Lettere e biglietti da poco uscito (La nave di Teseo) è l’epistolario tanto atteso che svela, dopo la selezione dei Taccuini (Einaudi), un altro tassello della storia di questa scrittrice. Gli incontri, gli scontri, le amicizie e gli amori: il mondo intellettuale – quasi lo stesso che ruotava attorno a Moravia, Pasolini, Elsa Morante e altri – si allinea in confessioni e scorci dentro i salotti, tra Positano, Roma e Gaeta. Punti di riferimento sul set e nella vita con Francesco Maselli sono Alessandro Blasetti, Luchino Visconti e Franca Angelini; molto più tardi, dagli anni settanta, compaiono l’amica attrice Piera degli Esposti, e poi la regista Lina Wertmüller, che la farà entrare al Centro Sperimentale come insegnante, e ancora Sergio Pautasso, con cui si innesca un dialogo severo e acceso, che porterà comunque nel 1983 a pubblicare L’università di Rebibbia per Rizzoli (ora Einaudi).
La cronologia è essenziale per capire una vita perché svela come leggere il lavoro in un’ottica di ordine e coerenza, la stessa che Goliarda Sapienza chiedeva ostinatamente a sé come autrice che fa della memoria un perno della parola. Tanti i nomi delle lettere, alcune spedite e altre no, a comporre un coro di presenze in grado di rivelare passaggi cruciali della scrittura: ad esempio c’è Attilio Bertolucci, che pare aver letto un’anteprima del personaggio di Modesta (o una traccia precoce di Io, Jean Gabin?), e che certamente aveva letto Il filo di mezzogiorno nel ’69 (ora La Nave di Teseo). Altri volti sono Titina Maselli, Leoncillo e Fleur Jaeggy, fedeli lettori dei primissimi anni, anche fino a L’arte del dubbio, un inedito che riusciamo finalmente a datare al 1966. Sono loro gli amici con cui Goliarda si confronta per scoprire se i suoi dattiloscritti valgano l’impegno profuso, quello di scrivere per essere libera e per reinventarsi; lo dice bene in una lettera ad Haya Harareet del 1960:
«Haya cara […] in un certo senso – sono cambiata: da quando lavoro comincio a contare gli anni e a realizzare quanto breve è il tempo che questa nostra madre – malvagia, nemica, crudele (parole di Leopardi che non siamo mai riuscite a leggere insieme) – natura ci concede dispettosamente! […] lavoratrice ossessionata dalle ore che si squagliano al sole […] È una conquista? Per me sì e non vorrei mai perderla questa paura vitale che mi sono conquistata. Non vorrei mai ripiombare in quel lago di inerzia dal quale mi sono tirata fuori afferrandomi per i capelli e con tanto travaglio […] Che cosa prodigiosa, Haya, un lavoro che ci piace! Niente mi aveva mai dato prima questa tranquillità e perché no, possiamo dirlo senza vergogna, questa gioia: non i viaggi, non il teatro, non l’amore!»
Goliarda, qui, parla della sua depressione e anche, per la prima volta, associa la “gioia” alla “scrittura”, anticipando il leitmotiv del suo romanzo oggi più famoso.
Una ragazza del secolo scorso lei, per dirla con Rossana Rosanda (chissà se si conobbero!), e che per lanciare Lettera aperta, il primo romanzo pubblicato nel 1967 da Garzanti (ora Einaudi), chiede l’aiuto di Enzo Siciliano. È lui a fare da editored è sempre lui, con tutta probabilità, insieme all’editore Livio Garzanti e ad Attilio Bertolucci, a congegnare la macchina che porterà il libro di un’esordiente ad essere candidato al Premio Strega.
La narrazione fa conoscere l’iniziazione di Goliarda bambina nella Catania del fascismo e il suo arrivo a Roma, per frequentare la Regia Accademia di Silvio d’Amico. Eppure questo è anche un romanzo che è stato modificato e scorporato di lunghe parti: digressioni, flussi di coscienza, pagine diaristiche e sperimentali, riferimenti ad autori amati, come tracciato nel saggio «Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza (Aracne).
Per Goliarda Sapienza – e per chi collaborò con lei – irrompere sulla scena editoriale significava riuscire a vincere lo Strega o il Premio Viareggio, cui fu candidata sempre nel ’67: se lo aggiudicò, invece, Alice Ceresa con La figlia prodiga. Oppure ricevere il Premio Brancati con Il filo di mezzogiorno sempre Garzanti. I premi come chiave del successo, ieri come oggi? Forse. Certamente due libri simili nella struttura, analoghi nella forma scelta, come Goliarda scrive, nel ’69, ad Adele Cambria: «Le sono grata di aver capito la chiave con la quale ho scritto – vincendo la ripugnanza che la parola autobiografia suscita in tutti noi».
Per dare un’idea di quello che fu il lavoro della scrittrice nell’editing di Lettera aperta è interessante leggere due citazioni tratte dal dattiloscritto su cui lei lavorò prima del passaggio nelle mani di Enzo Siciliano.
Il famoso esordio riportava infatti, originariamente, un’epigrafe di Pirandello. Un’altra caratteristica è l’uso di Sapienza di includere, tra parentesi, possibili varianti da considerare nella versione finale del testo.
Epigrafe
LETTERA APERTA
“… nulla si inventa, è vero,
che non abbia una qualche
radice, più o meno profonda,
nella realtà…”
Pirandello: “Il fu Mattia Pascal”
«Cari lettori (se ce ne saranno),
non è per importunarvi con una nuova storia poetica — so che ne avete avute tante da sorbirvi in questi anni — né per fare esercizio di (calligrafia) letteratura, come ho fatto anch’io per lungo tempo; né per bisogno di verità — non mi interessa affatto — che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da cinquant’anni sulle spalle. Voi penserete: perché non se la sbroglia da sé? Infatti ho cercato cercato molto, vi assicuro… Ma visto che questa ricerca solitaria mi portava alla morte — sono stata due volte per morire “di mia propria mano”, come si dice — ho pensato che sfogarsi con qualcuno sarebbe stato meglio, se non per gli altri, almeno per me. E che faccia bene parlare delle proprie cose — scusate se ricorro a questo luogo comune, vi prego di credere con la ripugnanza che questi luoghi comuni suscitano in tutti noi — ho dovuto ammettere (sperimentare) che ha qualche fondamento reale.»
In un capitolo mediano, un passo eliminato per intero incuriosisce perché si cita una delle letture più importanti di Goliarda negli anni Sessanta e forse da prima: Virginia Woolf.
«C’è qualcuno, meno i giornalisti che può vivere di quello che scrive liberamente? E sì, anche io ho “una camera tutta per me” come dice Virginia Woolf. Ho anch’io, non una zia che lasciandole “un’umile eredità” la liberò dal bisogno, ma un uomo che mi libera e mi dà la possibilità di pensare. Solo, come dice Virginia impareggiabile, solo avendo senza fretta guardare fuori della finestra e vedere per poi… parlare. La miseria è prigione. […] No, no, sono una donna che si guadagna la vita, sono una donna che guarda dalla finestra ed ha una camera per se stessa. Vi ripugna? “Ognuno deve mantenere se stesso?” No, queste erano le teorie di mia madre e mi dispiace proprio dirlo, erano troppo rigide, protestanti e ne ho abbastanza. Ognuno ha la sua croce — questa volta croce vera — di sfamarsi. E se hai la fortuna di avere una zia, un uomo, un padre che… È la libertà. Sì certo lo so che avanzo una teoria ambigua che si presta a molti fraintendimenti, ma per me è così, se volete ne riparleremo. Sono libera e questa libertà la voglio far fruttare…»
Un tema scottante per il nascente femminismo e controverso nelle sue parole, che insegnano a pensare, a mettersi in discussione.
Tristram Shandy, Leopardi, Simone de Beauvoir e molti altri popolano le pagine rimaste sino ad ora sconosciute: tutti riferimenti di un mondo di carta cui appellarsi, per sopravvivere e resistere, per rinascere scrittrice con le proprie forze.
L’andirivieni del circuito che conta, tra critici e autori votanti ai premi, la fa poi fermare: troppo difficile, per lei, sostenere le pubbliche relazioni che servono ad affermarsi.
Incrociando Lettere e biglietti e il volume Aracne si intuiscono i rapporti di potere e la prossimità di certe conoscenze, ad esempio con il giornalista Giancarlo Vigorelli, suo lettore, con Cesare Garboli che, insieme a Niccolò Gallo, aveva effettivamente letto le sue poesie negli anni Cinquanta, oppure con le amiche del Gruppo di scrittura frequentato tra gli anni Ottanta e Novanta: da Simona Weller, a Maria Rosa Cutrufelli a Lia Migale, che compaiono intervistate nel volume Aracne, insieme a Citto Maselli, a Beppe Costa – amico vicino e primo editore coraggioso de Le certezze del dubbio (ora Einaudi) – e altri.
Goliarda Sapienza non si dichiarò mai femminista ma fu vicina a molte militanti. Come sempre Beppe Costa ama ricordare che lei resta “tutta nella parola e meno nel corpo”, ed è certo una scrittrice la cui intelligenza si staglia nel panorama del contemporaneo, sfonda il canone e mette in crisi il lettore. Perché la corporalità e la libertà che vivono nei suoi personaggi, anche quando fa autobiografia, spiazzano e seducono, come il suo coraggio di essere contagiosamente – e contraddittoriamente –, fino alla fine, se stessa.
Copertina: Appuntamento a Positano ed. Francese, fine anni Sessanta o anni Settanta