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Ridendo sulla disfatta dell’esistenza. Serge di Yasmina Reza



«Non è il massimo dell’allegria questa storia» dice Serge. «Il massimo dell’allegria è andato. Ma possiamo ancora ridere», risponde Jean, il fratello. Non c’è niente di allegro, eppure Serge, l’ultimo romanzo di Yasmina Reza pubblicato da Adelphi nella traduzione di Daniela Salomoni, è esilarante. E sconveniente. Ma esilarante proprio perché sconveniente. Si ride di tutto: di una pancia debordante, di una sacca del catetere che penzola, di una dentiera che si stacca, di un oncologo che prescrive la cyclette a una malata terminale, di un’ebrea che si fa cremare, di un viaggio ad Auschwitz «per farsi spennare dai polacchi», del feticismo della memoria. Yasmina Reza travalica ogni confine tra comico e tragico, al punto che i suoi testi sono stati definiti osceni, squisitamente osceni per la precisione (Serrano Mañes).
Il romanzo comincia in piscina, con un costume da bagno preso a noleggio e il fastidioso sospetto che non sia mai stato lavato, con un bambino che sguazza nella vasca lavapiedi convinto che sia una piscinetta e un padre convinto che sia il Gange. In Serge,genitori e figli non la pensano mai alla stessa maniera. E i loro rapporti sono spesso controversi: abbiamo padri dispensatori seriali di sberle o puntualmente delusi dai figli (non abbastanza brillanti o non abbastanza belli), madri iperprotettive che effondono lozioni antizanzare, figli che crescono con la sensazione di essere di intralcio, non si sa bene a cosa.

Yasmina Reza

La storia è quella dei Popper, famiglia sgangherata retta dalla madre, malata terminale con un debole per Putin. La sua famiglia d’origine è stata sterminata ad Auschwitz, ma lei sembra essersi sgravata da quell’eredità. O almeno fa finta di essersene liberata. Ha sostituito il pranzo del sabato con quello della domenica, ha rispolverato un po’ le tradizioni, conservando solo quello che serve (di Israele, invece, non c’è bisogno, così dice). La domenica si procura il pollo migliore e lo offre con le verdure surgelate: quanto basta per tenere insieme i suoi tre figli e i loro stralci di famiglia. Il maggiore dà il titolo al romanzo: Serge, il re delle attività nebulose. È goffo ma si vanta di essere un donnaiolo ed è un genio nello spaparanzarsi. Poi c’è Jean, il fratello di mezzo, ovvero il tipo del costume a noleggio. Avrebbe voluto una famiglia perfetta ma non ci è riuscito. E infine, Nana, la figlia minore, la cocca di mamma, una femmina di classe secondo il padre. Ha sposato Ramos Ocha, un iberico venuto da chissà dove assieme al quale si sente «fieramente pezzente» (il padre non ha retto il colpo ed è morto un anno dopo il loro matrimonio).
Alla morte della madre il matriarcato crolla. I fratelli non sono in grado di continuare a tenere in piedi la baracca e scoprono il paradosso della famiglia: quella «connivenza primigenia» che i familiari conservano sebbene non siano né così simili né uniti (che poi è lo stesso paradosso su cui in Arte si regge l’amicizia). Le relazioni familiari sono cariche di conflitti, dissapori, risentimenti, malintesi, cattiverie persino, eppure quando compare una «macchia» al fegato o ai polmoni, ci si predispone improvvisamente a una tregua.

Al centro del romanzo c’è un viaggio ad Auschwitz che i due fratelli e la sorella intraprendono per assecondare un capriccio di Joséphine, la figlia di Serge (uno dei tanti capricci, al pari del corso di sopracciglia). Diversamente da ogni aspettativa, la visita al campo diventa il momento della resa dei conti: i personaggi si trovano costretti a confrontarsi con un doppio fallimento. Da un lato c’è il fallimento individuale che i tre fratelli si rinfacciano l’un l’altro (ma del resto, «quale vita non è un fallimento?»). Dall’altro lato c’è il fallimento di un’intera generazione. Quello di andare ad Auschwitz era ben più di un capriccio per Joséphine. «Giovane virgulto in cerca di identità» che si interroga sulle proprie origini, la ragazza si contrappone ai padri e ai nonni che si erano sbarazzati della propria identità arroccandosi dietro un proposito esistenzialista: «Non si dice abbastanza la leggerezza che procura l’assenza di eredità». Viene in mente Poulou, il protagonista di Le Parole di Sartre, che si descrive «leggero» dopo la morte del padre. Esattamente come era per il filosofo, la leggerezza rappresenta la condanna alla libertà dell’uomo gettato nel mondo, costretto a scoprirsi responsabile delle proprie azioni. Solo che qui, diversamente da quanto vuole Sartre, questa generazione è incapace di assumersi le proprie colpe, si limita a constatare la propria disfatta addossandone le ragioni alla storia: «Tutti quei bambini, che spreco, dice, il declino dell’Europa viene da lì. Hanno ucciso l’anima pulsante dell’Europa. Gli ebrei rimasti non valgono niente. Guarda che coglioni che abbiamo adesso».

Non c’è niente di allegro, ma «i grandi pessimisti» sono i soli con cui si rida, ha detto Yasmina Reza (L’Atelier du roman, 2001). Certo, l’unico riso possibile è quello «della disfatta dell’esistenza», così lo ha definito, quello che si risolve nella constatazione della fragilità della condizione umana e che si estende a tutti gli aspetti della vita (ma proprio a tutti, a dispetto della decenza o del politically correct). 
Ma quello che rende Serge seducente, ovvero quel suo essere tanto sconveniente quanto esilarante, è allo stesso tempo quello che rende la sua traduzione un’operazione complicata. Oggi più che mai, non deve essere stato facile resistere alla tentazione di epurare o anche solo di limare leggermente un testo politicamente scorretto, persino spietato talvolta (il ritardato… il nazista alla reception… gli ebrei antisemiti, i peggiori…). Inoltre, non c’è nulla di più complicato che tradurre la comicità, ricreare i ritmi serrati e incalzati su cui si fonda, rendere le battute sferzanti, i dialoghi spumeggianti, riprodurre la varietà linguistica (dall’uccello arrotolato a spirale in poi). Daniela Salomoni affronta brillantemente la sfida, ci offre un testo che non porta le tracce delle difficoltà, restituisce a Serge il suo vigore e persino tutta la sua squisita oscenità. 

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