«Solo chi sa essere del proprio paese può ambire a essere universale.» Lo scriveva Vasco Pratolini, ma è più che mai vero per Umberto Piersanti. Forse bisognerebbe appartenere a quel pezzo di Montefeltro su cui svettano i monti delle Cesane per restituire a pieno il respiro della sua poesia, ma è proprio dai suoi versi che se ne colgono suoni e sfumature. Nel saggio di Ezio Settembri, Il mito ritrovato, (industria&letteratura) se ne coglie il senso profondo, nella produzione del poeta nato a Urbino nel 1941. I luoghi sono, indiscutibilmente, una delle direttrici che il docente segue per tracciare una precisa e limpida mappa della produzione piersantiana che si sofferma, in modo puntuale, su tutti e nove i testi (dieci, con il più recente Campi di ostinato amore, uscito per La nave di Teseo nel pieno della pandemia e – all’altezza della stesura del saggio – ancora allo stato di bozza). Il lavoro di Settembri è una disamina precisa e accurata, che poco cede alla verbosità dello studioso e dell’esperto per scegliere invece una via di chiarezza – che non a caso, rassomiglia a quella intenzione di evocativa pulizia che Piersanti sceglie per i propri versi, che permette con facilità di accostarsi all’urbinate anche a chi non sia un assiduo lettore di poesia e in particolare dell’opera di un poeta noto, oggi soprattutto, per i versi dedicati al figlio Jacopo – che anche Settembri rintraccia come l’apice della sua produzione poetica – portatore di una rara forma di disturbo dello spettro autistico che gli rende impossibile la comunicazione, quantomeno nella forma che per il padre è sempre stata centrale per la propria definizione di uomo e di poeta, quella della parola, e della parola che evoca. Una centralità, quella del bisogno di collocarsi in relazione, che per Piersanti prende molte forme, che in gran parte vanno a lambire gli archetipi. È sulla traccia di questi assoluti che la trattazione di Settembri si dipana, attraverso la poesia ma sfiorando anche le altre forme che l’urbinate ha dato alla sua poetica. I romanzi, i racconti e – finanche – i poemi per immagini. Ma se – scrive un Piersanti ventiseienne nella seconda raccolta, datata 1974, Il tempo differente, titolo in cui si rintraccia un altro concetto cardine della sua poetica – «Ti è ignara la meta/e il tempo che ti sovrasta.» è invece molto chiaro il punto di partenza. La relazione più intima del poeta di Urbino è quella con il luogo dal quale proviene, con la sua patria – poetica, prima che concreta – in cui i tratti di sogno dell’evocazione della realtà che lo ha formato si legano con la tangibilità non solo della natura dei suoi monti e di quelle Marche che Roberto Galaverni ha riconosciuto come il terzo centro nevralgico della poesia italiana dagli anni Ottanta a oggi dopo, inevitabilmente, Roma e Milano.
Quella dei suoi luoghi è, per Piersanti, una vera e propria lingua. Non soltanto perché ne recupera i suoni e gli echi, mezzo espressivo ineguagliabile per restituire il suono di una poesia che di quella terra e di quelle voci si sostanzia e si compone. Una parola concepita – anche quando approda sulla pagina – per essere detta, da un poeta che, istintivamente, parla in endecasillabi. Non a caso, tra i primi e i più attenti a prestare attenzione all’urbinate fin dagli esordi, e al suo rapporto con il dialetto, c’è Franco Loi, a cui Milano deve quel po’ di lingua poetica dialettale (a patto che non si intenda l’aggettivo come dispregiativo) che ha saputo conservare lungo il secolo breve. La sua lingua nativa è, anche per Piersanti, lo strumento essenziale alla verità della poesia e a quella “allegrezza” che vedeva essenziale alla poesia Leopardi, inevitabile riferimento di Piersanti non solo per la consonanza geografica, ma soprattutto, dice il biografo, per la memoria evocativa che anche l’urbinate fa propria. Insieme al recanatese, (e alla classicità pascoliana), Settembri avvicina al’urbinate un conterraneo, Scataglini, e Attilio Bertolucci, in cui ritrova l’eco delle atmosfere.
Quella dei luoghi è infatti, soprattutto – la lingua di un’infanzia, un tempo contadino a cui tuttavia Piersanti non guarda come a una perduta età dell’oro. La poesia di Piersanti è bucolica, ma il suo con la natura non è un idillio. Non è un tempo migliore, quello dell’infanzia perduta a cui si tendono quasi tutte le sue opere. È, ha dichiarato «irrimediabilmente altro». Ma a cui il poeta sente di appartenere inevitabilmente. Composta di una memoria che è «alla base della mitogenesi individuale e familiare» che percorre la sua opera. Piersanti, e la sua voce fieramente classica, mai fuori dal tempo perché senza tempo, trovano il proprio luogo naturale in quello che oltre a un dato geografico, è un tempo e finanche una postura determinata in modo molto preciso. Le sue Cesane – e con esse, metonimicamente, la memoria familiare, incarnata soprattutto dalla nonna Fenisia – sono, quindi anche il tempo differente cui si faceva cenno. «Un altrove memoriale e mitico, ritrovato grazie alla fuga da un presente impoetico».
Una sacralizzazione – sacro del resto etimologicamente vale “separato” dei luoghi che non è autoesilio dalla realtà, né sterile bozzettismo. È anzi, un’immersione più profonda nella carnalità del reale, che prende la forma naturale ma anche quella delle donne che è tra i pochi, soprattutto tra i coevi, a liberale della patina idealizzante. L’amore e il desiderio diventano un tutt’uno con gli spazi intesi come loci amoeni in un tempo sospeso e con le donne di cui il poeta scrive, per restituirle a quel corpo collettivo di cui è parte tutto ciò che esiste. Cosa sono i corpi, in fondo, se non strumenti di relazione e dialogo?
«Questa vicenda lunga come la vita
forse cambia chi viene e non conosco
io nell’attesa sono come sempre
in giro sui miei colli nella cerchia
e poi vado lontano e qui ritorno».
I luoghi persi (che danno il titolo alla sua raccolta più nota, datata 1994, la prima uscita per Einaudi) possono così diventare anche simbolo e centro di storie fantastiche, e sempre sono oggetto, per l’urbinate, di una meraviglia autentica. Così il suo racconto, perché, secondo il poeta «la poesia non fa l’uomo migliore, lo fa più uomo». Ed è in essi e nella parola che da essi sgorga che Piersanti ritrova il proprio mito e lo consegna al presente a cui restituire una voce poetica.