Search
Close this search box.

Regie senza films. Intervista a Luigi Socci



Luigi Socci è nato ad Ancona, dove vive, nel 1966. Agente di commercio, versificatore part-time, performer confessional e (ri)animatore poetico ha pubblicato Prevenzioni del tempo (Premio Ciampi Valigie Rosse, 2017), Il Rovescio del dolore (Italic Pequod, 2013, Premio Metauro e Premio Tirinnanzi-Città di Legnano), Freddo da palco (d’if, 2009) ed è presente nelle antologie Samiszdat (Castelvecchi, 2005) e VIII Quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2004). Scrive di teatro per Il Messaggero e Il Resto del Carlino. È nella redazione del lit-blog Le Parole e le Cose ed è direttore artistico del festival La Punta della Lingua e dell’omonima collana per l’editore Italic Pequod.

Mi ha gentilmente concesso questa intervista su Regie senza films, la sua ultima ultima raccolta di poesie, pubblicata da Elliot nel 2020.

regie senza films

Il titolo di questa raccolta è Regie senza films, una delle sezioni è intitolata Director’s cut e uno fra gli autori citati è Alfred Hitchcock. Come si pone l’arte cinematografica in seno a quella poetica, ma soprattutto, il ruolo del regista in quello del poeta.
Per alcuni anni, man mano che il libro prendeva forma, il suo titolo provvisorio era stato proprio Director’s cut. Di quell’espressione, oltre al contesto cinematografico di provenienza, mi intrigava la felice ambiguità di quel “cut”, diviso tra il significato di versione d’autore autorizzata e le sue evidenti (almeno per me) implicazioni (auto)lesionistiche. Più precisamente percepivo l’intera espressione director’s cut come un ossimoro in cui, al senso dirigisticamente imperioso di director (regista), si opponesse quel taglio che ne rivelava la vulnerabilità. Essendone, forse, addirittura una diretta conseguenza. Già pregustavo, al riguardo, una citazione in esergo, tratta dal film Scream 2 di Wes Craven, in cui il serial killer di turno, in questo caso il regista incaricato di girare il film sugli squartamenti del primo episodio, essendo ormai alle strette, si ritrova a farsi scudo di un ostaggio, con relativo rasoio alla gola. «Avrai anche il director’s cut» gli urla il produttore supplicandolo di desistere dalla carneficina. «Ce l’ho già», risponde il regista omicida sgozzando l’ostaggio. 
Purtroppo però molti degli amici umanisti (ma evidentemente assai poco cinefili) a cui avevo anticipato il titolo, non conoscevano l’esatto significato dell’espressione. Da qui la retrocessione a titolo di semplice sezione, visto che il libro sarebbe stato presumibilmente indirizzato a loro. 
Anche il titolo definitivo di Regie senza films nasce da una suggestione cinematografica, per l’esattezza da The Canyons di Paul Schrader, film non eccelso ma scritto da Bret Easton Ellis e dunque, per quanto mi riguarda, interessante a prescindere. Può darsi che ne abbia sovrainterpretato il carattere allegorico ma se dovessi riassumerne la trama direi che, sullo sfondo di una Hollywood anni 80 in cui le sale cinematografiche chiudono una dopo l’altra abbattute dalla concorrenza delle visioni domestiche in vhs, un regista che chiacchiera di film senza riuscire a realizzarli, e che dunque non può dirigere (manipolare) professionalmente gli attori, inizia a farlo con le persone nella vita reale, in modo amatoriale e fino alle estreme conseguenze. Regie senza films è la frase che mi sono ritrovato in testa mentre cercavo di sintetizzare in tre parole una recensione mentale a The Canyons e, subito dopo averla formulata ed essermela così ritrovata bella e pronta (anche grazie alla consonanza con l’espressione gergale “farsi un film”) mi sembrò una metafora adatta a descrivere l’affinità di questa “attività mancata” con la condizione di impotenza costitutiva al fare poetico stesso, a livello quasi ontologico. Vedevo insomma, per rispondere finalmente alla tua domanda, il poeta (me stesso?) come un regista disoccupato ma con ancora la residua volontà (anzi la pretesa, anzi la presunzione, anzi, meglio ancora, la velleità) di rimettere in ordine sulla pagina ciò che non quadra e sfugge al controllo nella realtà, non tanto per ritrarla, quanto proprio per il solo gusto (la necessità) di metterla in posa. Sottraendola così al suo inarrestabile (e doloroso) fluire, attraverso un processo di “raggelamento” che ne trasformasse lo stato liquido in solido. Con il risultato però, data la natura non innocente né neutra del linguaggio, di ritrovarsi in mano un film a zero budget in cui i meccanismi messi in moto sulla pagina si ripercuotono nella vita reale con effetto domino. 
Altri titoli scartati sono stati Bis (perché troppo autoreferenziale) e Flop (pericolosamente profetico).

adesso vi faccio vedere un video
adesso vi faccio vedere i filmini
del viaggio di nozze scherzavo
adesso vi faccio vedere un audio
adesso vi faccio vedere gli occhi
eccoli
in previsione di un’anteprima
adesso vi faccio vedere in un modo
mai visto prima

Quali sono i moventi e i processi che portano i tuoi versi dalla loro pagina scritta all’oralità, alla lettura, all’arte performativa?
Mi porto dietro da sempre, forse un po’ immeritatamente (o forse un po’ ingiustamente, a seconda del punto di vista) la nomea di poeta performativo. Ho scoperto precocemente, fin dalla mia prima lettura pubblica (ormai quasi un trentennio fa) che poesia “scritta” e poesia “detta”, agendo attraverso medium diversi, potevano prestarsi a differenti interpretazioni e produrre diversi risultati. Alcune persone ridevano (con mia sorpresa), altre manifestavano disapprovazione per una certa crudezza delle immagini evocate, altre ancora, addirittura, rispondevano ad alta voce, polemicamente, ai miei versi. Fossero state sul divano di casa, con il libro in mano, lo avrebbero al massimo chiuso, ma trovandosi, in quel caso, nella condizione di uditorio e non di lettori silenti, si ritrovarono anche loro ad agire, in diretta, magari in reazione (ma comunque in relazione) a quanto andavo loro dicendo. Come se la lettura ad alta voce fosse più simile a un farmaco dall’effetto immediato (ma più effimero) rispetto al lento rilascio di quella domestica e cartacea. È innegabile che la mia dimestichezza con le arti performative (acquisita nel ruolo di accanito spettatore e di recensore professionista, o quasi) abbia fornito la mia poesia di un serbatoio lessicale e di una gamma di possibilità tematiche, oltre che di un vero e proprio armamentario scenico composto da oggetti di scena, voci elettroniche e musica, dal vivo o registrata, con cui far interagire la parola. Ma è altrettanto innegabile che i miei testi ambiscano a incidersi innanzitutto sulla pagina, come in una partitura (spesso lungamente elaborata) in cui compositore ed esecutore siano la stessa persona. Alcuni hanno l’aspetto di veri e propri monologhi drammatici, altri, invece, destinati a un “teatro di parole” prettamente cartaceo, inscenano un dialogo a più voci in continuo conflitto dialettico tra di loro.  
Ad oggi considero la dimensione scenica della mia poesia come un arto retrattile da sfoderare per l’occasione, per intensificare, o specificare meglio, il senso del discorso aumentandone l’efficacia. Per quanto riguarda l’esecuzione mnemonica della mia “recitazione”, posso dire che, da un lato, può essere considerata la risposta a chi ritiene che la poesia italiana contemporanea manchi di memorabilità (se vogliamo che le nostre poesie siano memorabili verifichiamo che siano almeno memorizzabili!), dall’altro, è frutto della loro stessa modalità compositiva, e cioè di una ripetizione mentale dei testi ancora “in progress” (per rintracciarne le magagne, gli inciampi e “gli anelli che non tengono”) che uso come ninna nanna interiore per curare la mia insonnia. Trovandomi di fatto (ma involontariamente) a saperle a memoria, oltre che sprofondato nel sonno più profondo. 

Leggi
senza usare il leggio
dal libro della memoria
come faccio io.

In tutte le poesie di questa raccolta la visione ironica è una componente onnipresente ma al contempo mutevole, travestita a volte di comicità, a volte di sarcasmo. È una modalità di recupero del distacco dal reale e dall’umano, o per esserne ancora più immerso?
Se dovessi ristampare oggi il libro e potessi apportare qualche correzione, aggiungerei una (finta e, appunto, ironica) citazione da Flaubert in epigrafe: «La Bovary / je suis». Per evitare, insomma, che si percepisca, erroneamente, un intento moralistico e dichiarando che l’unico indice puntato, nella mia poesia, è quello alla mia tempia. 
Sarei gratificato dall’essere definito un “poeta comico”, ancor più che “performativo”, praticando abitualmente, della comicità, le molteplici varianti e possibilità: dall’ironia (più o meno garbata) alla parodia complice, dall’umorismo nero a quello più empatico e pirandelliano, dal comico demenziale alla satira, senza dimenticare il grottesco, unica forma di tragico consentito alla modernità, secondo Baudelaire. Ma mi rendo conto che la definizione di “tragicomico” (o, più letterariamente, hilarotragico) sarebbe più calzante. 
Del resto per me il comico non è una finalità ma uno strumento, non a caso disposto spesso in posizione incipitaria, quasi in funzione di captatio benevolentiae, con il quale ottenere la fiducia o la complicità di chi legge (o di chi ascolta). Fiducia immeritata e carpita fondamentalmente con l’inganno se è vero (come spesso lo è) che nelle mie poesie da una premessa, diciamo così, “spiritosa”, si assiste a un progressivo slittamento fino alla frana definitiva in cui il comico si rivela nel suo inquietante rovescio. Il comico, dunque, come arma di autodifesa emotiva i cui colpi (a salve) somigliano ai goffi tentativi di chi cerchi di uscire dalle sabbie mobili agitandosi e, proprio per questo, finendo per esserne sommerso ancora più rapidamente. 

La gente è inverosimile.
La gente è incorreggibile.
La gente non è normale.
La gente come gente
è amatoriale.
La gente si fa anche
doppiare per parlare
con voce superiore
all’originale

Lo sguardo a campo aperto e multiforme che ci si presenta nella lettura dei componimenti di questa raccolta, rimane sempre guidato dalle strutture del verso, fra metro e rima, fra ritmo e suono. Quanta libertà ci si può concedere nella poesia e a che prezzo?
Ho sempre creduto che in poesia ci si debba concedere quanta più libertà possibile all’interno del perimetro del senso e il massimo di anarchia concessa dal filo spinato della forma. Forma nella quale dovrebbe risiedere lo specifico poetico stesso, secondo me. 
Non che la poesia italiana non abbia prodotto, specialmente negli anni ’60 e ’70, in relazione con il mondo dell’arte informale, opere di un certo interesse, ma una cosa è la poetica dell’informale consapevole, altra, ben diversa, è la sciatteria dell’informe incoscientemente prodotto. Personalmente non sono un fanatico delle forme ermeticamente chiuse (anche per la mia incapacità di scrivere un sonetto o una canzone sestina che soddisfi certi standard di qualità) ma che la poesia debba avere un intento formalizzante (uno a piacere, uno qualunque) anche a «forma di elefante o di campo di grano o di fiammella di un fiammifero» (per dirla con il fumettista Moebius) sono pienamente convinto. 
Per quanto mi riguarda, preferisco una poesia che intrattenga relazioni con arti “cugine” come la musica e il teatro (e che necessiti, dunque, di una qualche forma di sonorizzazione) piuttosto che con le arti visive (pur non disprezzandone alcuni risultati di natura installativa). 
Poi vabbè, c’è anche chi non considera la poesia un’arte vera e propria, e che di conseguenza ritiene sufficiente, per produrla, una (presunta) serietà dell’intenzione che prescinda dal prodotto finito, ma non è il mio caso.  

Qui dove la materia
è più tenera
poco coesa meno resistente
qui dove non si oppone
non solleva obiezione alla tua versione
tracci il contorno con precisione
delimiti il perimetro
circoscrivi il campo d’inazione.

Nelle poesie di Regie senza films è raro l’appello alla prima persona singolare, tanto che l’intimità dei versi sembra farsi già condivisa solo per l’atto stesso di essere letti. Qual è il rapporto fra lo scrittore, la sua autorialità, il suo ‘io’ e la sua stessa poesia?
So bene, essendomi laureato con una tesi su Carlo Emilio Gadda, che l’io è «il più lurido dei pronomi» così come so che nell’espressione “prima persona singolare” il sostantivo “persona” è termine desunto dal linguaggio teatrale (derivando, etimologicamente, da “personaggio”) ed è dunque, a tutti gli effetti, una maschera autofinzionale da indossare o da strapparsi via a seconda delle occasioni. 
Io, per me, è uno come un altro e non volendo schierarmi tra i fautori dell’io a oltranza né tra i suoi più acerrimi detrattori (così come non volendo scegliere tra poesia lirica e non) mi accontento di dislocarlo, di delocalizzarlo dal centro della scena, travestendolo via via da suggeritore, figurante, spalla, alter-ego, controfigura, doppiatore, comparsa, imitatore o sosia, quando non, addirittura, in un vero e proprio “tu lirico”. In alcuni testi la voce che dice “io” è prestata a un personaggio terzo, che parla a proprio nome come in un monologo teatrale, in altri è il pronome “voi” a prendere il sopravvento immaginando un dialogo o un’interazione (ma senza finalità prescrittive) tra l’io poetante e un pubblico di potenziali lettori-ascoltatori. 
La mia ambizione, però, per rimescolare ulteriormente le carte, resta quella di raggiungere il massimo di impersonalità consentita all’interno di un dispositivo para-lirico e di essere invece profondamente (e segretamente) autobiografico quando mi trovo a descrivere, con precisione quasi fotografica, il gruppo scultoreo dell’Estasi di Santa Teresa D’Avila del Bernini.

Tu
sei
il personaggio che dice
io
perché sai
che
chi lo dice
lo è.



Copertina:  Fotografia di Dino Ignani


categorie
menu