Nel Racconto dell’ancella, che a oltre trent’anni dalla pubblicazione ha fatto di Margaret Atwood un’autrice-diva, un’icona – malgrado lei con ammirevole sagacia abbia lasciato spesso trapelare che gli iconici panni di paladina vadano un po’ stretti alla sua inquietudine disciplinata di scrittrice – le donne vivono una deprecabile condizione subalterna, che sarà pur distopica, ma balugina di sinistre somiglianze con la realtà. I racconti raccolti ne L’uovo di Barbablù, invece, usciti un paio d’anni prima del Racconto dell’ancella, hanno un realismo più diretto: sono abitati da donne che proteggono gli uomini da tutte le brutture che rendono la vita interessante.
Chiacchierano fitto fitto, in cucina, di malattie, tradimenti e delitti; se un uomo apre la porta si interrompono, per decenza, per non turbarlo, e appena quello esce tornano alle loro storie truculente, con serena noncuranza, qualche volta con divertimento. Usano, insomma, a mariti e figli la galanteria che un bon ton ormai scomparso prescriveva agli uomini di osservare al cospetto di una signora. Solo che, alla fin fine, sono loro quelli che comandano: loro decidono delle esistenze di queste donne che vedono la vita con molta più chiarezza di loro.
Fa una certa impressione pensare che questi dodici racconti siano apparsi per la prima volta quasi quarant’anni fa, nel 1983: l’estate scorsa Racconti Edizioni ha presentato la prima traduzione completa della raccolta (completa ed elegantissima, grazie al magnifico lavoro della traduttrice Gaja Cenciarelli), includendo quattro storie escluse dalla versione Baldini&Castoldi del 1999. Fa impressione, perché non dimostrano affatto la loro età: ma nel primo racconto, Momenti significativi nella vita di mia madre, che ci porta nel Canada selvaggio e rurale del dopoguerra, alle spalle della madre della scrittrice, ancora ragazzina, in posa con le amiche per una fotografia, «c’è un mondo che si sta già precipitando verso la rovina, a loro insaputa: la teoria della relatività è stata scoperta, gli acidi si stanno accumulando sulle radici degli alberi, le rane toro sono spacciate. Ma loro sorridono.»
E le donne di Atwood si muovono tutte su uno sfondo che innocentemente accoglie i prodromi dell’oggi: appartengono al loro tempo, e pure al nostro. Sono argute in segreto: come Sally, la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, che colleziona trafiletti di cronaca nera per costruire gialli di cinque pagine al corso di scrittura che frequenta nelle sere in cui il marito cardiologo resta fuori per lavoro. A lui non dice nulla: lo considera anzi un po’ stupido; i segreti li condivide con Marylynn, l’amica divorziata a cui vorrebbe, ma non osa, somigliare. Le hanno assegnato il compito di riscrivere in chiave contemporanea la fiaba di Barbablù, partendo non dalla versione di Perrault, con la sposa salvata dai fratelli maschi, ma da una variante vagamente femminista in cui, oltre alle chiavi delle stanze, il celebre vedovo affida alla moglie di turno anche un uovo bianchissimo – e sarà proprio l’uovo, non la chiave, a macchiarsi di sangue rivelando il peccato di curiosità quando la sposina si affaccerà alla porta proibita scoprendo i cadaveri delle mogli precedenti. Anche alla stessa Sally questa versione – con l’uovo, simbolo di fecondità, che si macchia del sangue della verginità perduta, e Barbablù che sposa una dietro l’altra tre sorelle: le prime due macchiano l’uovo, la terza lo mette al sicuro giusto il tempo di aprire la stanza vietata e ricomporre per magia i corpi delle sorelle squartate – sembra troppo didascalica per non perdere un poco del fascino dell’originale. Ma quello che riesce a farne Margaret Atwood, riscrivendo la fiaba nella forma di un racconto sottile e insinuante, ecco, quello sì che è sconvolgente.
Atwood sbircia dove è proibito guardare: fra i segreti di Sally, terza moglie di un pluridivorziato che non vuol sapere nulla delle ex inghiottite da un destino oscuro di mezza età e obnubilamento, e si convince di vedere il marito liscio e sciocco come un uovo. Lei crede di saperlo mantenere immacolato e intatto, quell’uovo affidatole da un Barbablù che è lo sguardo del mondo su di lei, quello sguardo che la obbliga a fare la mogliettina e a vedere con sospetto le sirene che accerchiano il suo Ed per farsi auscultare il cuore. Ma nella notte, d’improvviso, ha una rivelazione: l’uomo levigato e prevedibile, rassicurante come un uovo sodo, che lei pensa di poter appoggiare sullo scrittoio antico comprato per darsi un tono, in realtà è un uovo vivo, sta per schiudersi e pulsa di chissà che vita nascosta.
Solo una grande scrittrice come Atwood, che all’indomani del successo stratosferico e a scoppio ritardato del Racconto dell’ancella dichiarò di non voler essere trasformata in un santino né in un simbolo, può costruire un sistema di rimandi così ambivalente, profondo e vero, da restituire alla fiaba di Perrault il suo tono opaco di enigma, rifuggendo le equazioni che vorrebbero l’uovo identico al femminile e la chiave al maschile, e dando vita a una visione perturbante in cui tutti gli intoppi di un rapporto – silenzi, segreti, assenze – cambiano segno di colpo. Ribellandosi a schemi e interpretazioni univoche, Atwood ci mostra che la letteratura sta nelle pieghe dell’interpretazione che diamo della vita; e che, come succede in uno dei racconti più belli della raccolta, Betty (uno dei quattro finora inediti in Italia, insieme a Scorfana, L’ibis scarlatto e La mangiapeccati), la vita degli altri la comprendiamo in ritardo, perché sempre in ritardo ci accorgiamo di somigliare a chi non vorremmo.