Elvira Mujčić nasce negli anni Ottanta in Serbia e vive tra la Croazia, la Bosnia e l’Italia. Traduttrice dal bosniaco all’italiano, scrive anche per il teatro. Ha pubblicato diversi libri con Infinito edizioni e dal 2016 è autrice presso Eliott edizioni, con cui pubblica Dieci prugne ai fascisti. Il recente Consigli per essere un bravo immigrato (Elliot, 2019) è un dialogo immaginato tra la voce narrante e quella di un ragazzo di nome Ismail, che conduce le lettrici e i lettori nel territorio degli sconfinamenti – attraverso le peripezie burocratiche e gli stereotipi che bisognerebbe indossare per essere considerati immigrati d’elezione.
I
Da tre anni almeno riconosco delle traiettorie attigue ma distanti. Ora che le penso e me le figuro, le vedo tracciarsi sulla faccia di un mappamondo di gomma morbida mentre si inseguono senza incontrarsi mai. Quando ho deciso di partire per la prima volta e di lasciare l’Italia, temporaneamente, l’ho fatto senza neanche immaginare che si stesse trattando di programmare un’avventura à plusieurs.
Pensavo semplicemente al modo più veloce e indolore per fuggire un’adolescenza reiterata. Non sapevo che, aldilà di me con le cose infilate nello zaino e nella borsa, mi venivano dietro anche due riflessi di me: quella che resta e quella che parte.
Quindi eravamo in tre nel sedile dietro dell’automobile del nipote di Rachida, Otman. Partii in auto perché i voli per Parigi erano stati annullati a causa della nube di cenere dell’Eyjafjöll in Islanda. Nel 2010 lasciai per la prima volta l’Italia con l’intenzione di non tornarci. E con lei i volti dei miei genitori e di mia sorella, che avevano cominciato a salutarmi con le mani e gli occhi già prima del giorno della partenza.
II
Ho incontrato Elvira Mujčić a Pisogne nella libreria di due cari amici, Andrea e Moira. In quell’occasione la scrittrice parlava di Dieci prugne ai fascisti e oltre a rispondere a domande inerenti il suo libro rispondeva a chi le domandava informazioni biografiche prima del suo trasferimento a Roma. Raccontava infatti che diversi anni prima era arrivata a Cevo, in provincia di Brescia, in fuga insieme alla sua famiglia dalla guerra nei Balcani.
III
Nel mese di maggio dello scorso anno Elvira Mujčić ha pubblicato Consigli per essere un bravo immigrato. «Mi venne il sospetto di vivere in mezzo a chi non rischia più, si nasconde dietro la sua opulenza piena di pregiudizio e priva di desiderio, e quello di cui ha paura è la tenacia con la quale altri esseri mani bramano una vita più piena. Dunque la nostra società non è affetta da razzismo, bensì da invidia; dev’essere il senso dell’invidia per le loro imprese epiche ed eroiche che ci spinge a devitalizzarli bloccandoli all’interno di luoghi e tempi vuoti, in cui la loro energia si affievolisce e il desiderio di vita si fa domabile. È forse il livore delle vite occidentali il motivo per cui li obblighiamo a narrarci unicamente storie penose, le altre abbiamo paura di ascoltarle, poiché chi siamo noi se loro non sono dei prevedibili poveracci?».
IV
Da quando sono partita il letto a tre piazze dove ho cominciato a dormire necessita una sistemata, poiché gli scivolamenti perigliosi sono dietro l’angolo. Ci avvolgiamo l’una vicino all’altra, ma le coperte e i lenzuoli non sembrano bastare mai. L’una spiega all’altra la frustrazione di dover parlare quotidianamente in una lingua che resta straniera, l’altra sembra intendere ma non capisce perché l’una si lamenta sempre. L’ha scelto no? Mica è stata costretta per necessità vitali? La terza parla dello sradicamento, del non sentirsi a casa in nessun luogo; la terza dice anche che nonostante la volontà programmatica, il dubbio di stare girando a caso attorno al centro di una giostra le resterà per sempre.
V
«Già, hai sbagliato terra, siamo ben lontani dal miglior mondo possibile”. “Sì, ma il viaggiatore fa così, rischia tutto anche se in cambio non ottiene nulla”.
Per mettere radici occorre sradicarsi, ricordai di aver letto da qualche parte. Lo guardai di nuovo, camminava leggero come se molleggiasse sulle ginocchia, sorrideva con gli occhi socchiusi e le labbra increspate di chi è convinto che il vento ha girato e che a questo punto non possa più accadergli nulla di male».
VI
Settimana scorsa ero al marché aux puces de Vanves con mio padre, che era venuto a trovarmi, per festeggiare il suo compleanno con me a Parigi. Ho trovato un carillon. In francese il carillon si chiama anche boîte à musique. È di legno e ci sono cinque cavalli con gli occhi smaltati di nero che si rincorrono sulle note di una canzone malinconica. Per ora sta sul comodino di camera mia, vicino al letto.