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Raccontare storie differenti come atto politico. Intervista a Gianluca Nativo



Il primo che passa inaugura le uscite di narrativa italiana di Mondadori per questo 2021. Si tratta dell’esordio di Gianluca Nativo, che ha già un passato di collaborazioni con riviste di racconti come Nuovi Argomenti, Altri Animali e Inutile.

Nel suo romanzo, troviamo una Napoli diversa dalle rappresentazioni a cui siamo stati abituati. Non è la periferia della malavita a essere raccontata, né tantomeno la vicenda ferrantesca che attraversa il Novecento. Siamo nell’hinterland della città partenopea, in una famiglia del ceto imprenditoriale, a districarci tra classici valori alto borghesi e questioni di status quo.

Pierpaolo, figlio di un costruttore edile e di una madre tenacemente attaccata alla famiglia e al censo, è alle prese con un anno molto particolare. Nonostante l’apparente superiorità e distacco della sua famiglia, all’imbocco dell’università la routine domestica subisce due brusche rivoluzioni: la prima, quando il padre viene arrestato e inizia un’indagine sulle sue attività. La seconda porterà il protagonista ad affrontare gli stereotipi in cui non riesce a identificarsi e a chiedersi quale sia il suo orientamento sessuale. «Chi ero io per scardinare una precisa etica domestica?»: in questo solco, inizia un percorso di crescita che lo porterà a interrogarsi sulle aspettative familiari e della società, a scontrarsi con il desiderio e le sue leggi.

Il primo che passa riesce a tenere insieme diversi temi e spunti di riflessione per l’attualità e Limina ha deciso di parlarne Gianluca Nativo, per approfondire gli aspetti principali di questo esordio e conoscere le intenzioni dell’autore.

Il primo che passa
Il primo che passa, Gianluca Nativo, Mondadori

Inizierei con una domanda forse banale, ma d’obbligo per conoscere un esordiente. Quando è nata la tua passione per la scrittura e cosa pensi abbia caratterizzato il tuo percorso, sia come lettore che come scrittore?
La passione è nata credo durante l’adolescenza per tutta una concomitanza di cose: pomeriggi di noia, vita di provincia, madre lettrice e forse anche lo zampino di qualche insegnante. Ma questa è una dimensione da dilettante, forse dettata solo da una forma distorta di narcisismo, un voler farsi notare a tutti i costi quando a scuola nessuno sembrava farlo, ecco. Se il me adolescente vivesse oggi molto probabilmente sognerebbe di fare l’influencer.
La passione vera e propria è nata in un secondo momento, dopo aver letto abbastanza da capire che forse potevo raccontarmi anche io.
Fondamentale è stato lo studio e credo il momento in cui ho chiuso con le aspettative: non più voglio diventare uno scrittore, ma scrivere.

Il primo che passa è il tuo primo romanzo. Da dove è arrivata l’ispirazione per la storia che hai raccontato? Si tratta di un libro scritto di getto o ha vissuto diverse fasi? 
Questa è un’informazione difficile da recuperare. Non credo esista davvero l’ispirazione, credo piuttosto in un movimento mentale, magnetico quasi, capace di collegare cose lontane tra di loro. Quando questo legame regge allora è il segno che quella storia va raccontata.
Diffido nella scrittura di getto, al massimo la riservo al lavoro sui racconti, che meglio si adegua allo scatto rapido della forma breve.
Ho scritto questo romanzo in due anni, soprattutto in estate, quando mi mantenevo grazie a un sussidio di disoccupazione. Il romanzo ha avuto credo due fasi. La prima è stata una serie ripetuta di tentativi. Probabilmente ero ancora legato alla forma breve del racconto quindi mi ritrovavo a scrivere e riscrivere per più di trenta volte l’inizio del romanzo senza riuscire ad andare avanti, mi mancava il passo. Fino a quando non ho trovato la lingua giusta. E questa è arrivata sempre attraverso altri libri. Soprattutto scrittrici: Fabrizia Ramondino, Fausta Cialente, Elsa Morante. Leggevo i loro libri senza più seguirne la trama ma solo tendendo l’orecchio al ritmo delle loro sintassi. Avevo bisogno di una lingua classica ma che avesse la freschezza e il coinvolgimento di una lingua contemporanea.

Trovo che l’ambientazione abbia una sua grande particolarità: anche se siamo in un contesto napoletano, ampiamente raccontato in serie tv, film o romanzi, sembra quasi di trovarsi in uno scenario inedito. Inoltre, sembra esserci una sorta di osmosi tra la città e il personaggio di Pierpaolo. Quale volto (o volti) di Napoli hai voluto raccontare? E perché? 
Napoli, tra le mille metafore che si porta dietro, è anche una città a strati. Non credo di aver avuto l’intenzione di raccontare uno dei volti della città. È avvenuto forse il processo contrario, è stata la città stessa a offrirsi di volta in volta alle esigenze dei personaggi e in questo caso si è creato in automatico un rapporto osmotico. Volevo creare due spazi molto diversi, uno claustrofobico e allo stesso tempo intimo – la periferia anonima – e uno invece sensuale, luminoso – Napoli. Forse avrò messo in risalto l’aspetto erotico della città. Napoli esibisce una sensualità molto riconoscibile e, del resto, anche molto rappresentata in letteratura: da Petronio a Boccaccio fino ai racconti di Patroni Griffi e i romanzi di Elena Ferrante.

Il desiderio è uno dei temi principali di Il primo che passa, forse uno dei suoi motori. E in un certo senso, è da lì che parte la messa in discussione di Pierpaolo. Trovo apprezzabile che il protagonista si scontri con un tipo di mascolinità più machista, mostrandosi diverso o interessato da altro. «Nessuno dei miei amici aveva speso il tempo che ho speso io a domandarsi chi dovessero essere. Lo sapevano già». Quanto è importante parlare di soggettività diverse e narrare di contro-canoni, per te?
È fondamentale. Raccontare storie, proporre modelli di riferimento diversi è, per me, vero atto politico. Ricordo con precisione un’estate di qualche anno fa. Era un periodo per me incerto, forse simile a quello che vive Pierpaolo nel romanzo. Faceva molto caldo. Trovai in rete una serie tv, Looking: il racconto a puntate della vita di quattro amici gay a San Francisco: lavoro, amicizia, sesso, amore. Fu una svolta, superai l’estate indenne. Anche se non ero a San Francisco ma nella periferia di Napoli, sdraiato a letto col computer sulla pancia, guardare quella serie mi fece sentire meno solo.
Il mio sogno è che il canone si espanda in modo orizzontale, che sia capace di raccontare tutte le esperienze possibili, fino a quando non sentiremo nemmeno più bisogno di utilizzare la definizione di canone.

Il primo che passa

Nel corso delle pagine di Il primo che passa viene fuori un personaggio letterario forse poco raccontato nei coming of age. Solitamente ci ritroviamo davanti a personaggi anticonformisti, estrosi, in aperto conflitto col mondo. Invece, Pierpaolo sembra essere il contrario. Viene accusato di non saper vivere la vita, di non essere capace godere. Essendo un ragazzo dimesso, per lui non è facile pensare di sovvertire le regole imposte dalla famiglia e dalla società. Come mai hai scelto di tratteggiare il protagonista con questi elementi?
L’esitazione di Pierpaolo credo sia anche un tratto generazionale di molti millennial. L’idea attorno a cui ho costruito nel tempo questo romanzo era quella di raccontare la smania di chi si ritrova a scoprire con colpevole ritardo il mondo e la vita adulta. Non è un caso che Pierpaolo fa scoperte importanti, che andavano distribuite in una normale adolescenza, tutte a vent’anni.
Poi credo che rapportare un personaggio gay di un romanzo di formazione con una personalità ribelle, artistica, sia davvero limitante. Si rischia di restringersi intorno a uno stereotipo, come se non esistessero, che ne so, impiegati gay. Pierpaolo studia Medicina, è sempre stato un adolescente gregario e ubbidiente, prova, nonostante tutto, ancora una forte empatia verso i genitori e l’ambiente da cui sente di doversi emancipare, eppure riesce comunque a decifrare il suo desiderio come diverso da quello degli altri e viverlo.

Per di più, nelle pagine del tuo esordio sono sfondati moltissimi tabù. Quello che ho trovato più originale, è che le esperienze sessuali possano essere deludenti, che non hai indugiato nella descrizione di molti intoppi, insicurezze e imbarazzi, e che i percorsi di iniziazione non siano belli e appaganti come invece avviene nei film. Cosa ti ha spinto a inserire questo aspetto della sessualità in Il primo che passa? Trovi sia importante parlare anche di questo?
Credo sia fondamentale, o si rischia di perdere di credibilità. Non tutte le prime volte sono felici. Alcune sì. Proprio qualche giorno fa un amico a pranzo mi ha detto “sai, io però la mia prima volta con un ragazzo me la ricordo bene, ero super disinibito ed eccitato”. Beato lui. Le esperienze sessuali possono essere anche  deludenti. Credo abbia un impatto maggiore se a raccontarlo sia un maschio. Si dà per scontato che i maschi sappiano come funzioni il proprio corpo – che non abbiano bisogno di un consulto medico, come le ragazze dal ginecologo, ad esempio – e che gli basti seguire il proprio istinto, come suggerisce anche il padre a Pierpaolo: “Tu caccialo fuori…”.
L’identità sessuale di Pierpaolo del resto è ancora remota. Per ora ha scoperto qual è il suo desiderio, ma questo non significa salvare in automatico se stessi. Avevo bisogno di coinvolgere Pierpaolo in molti incontri deludenti per farlo arrivare poi con calma a conoscere il proprio corpo, a capire il valore per nulla scontato, e poco raccontato tra i maschi, dell’intimità.

Infine, Il primo che passa racconta anche la vita di un universitario: dal test di ingresso allo stress della sessione, dalle macchine del caffè della sala studio all’ansia prima degli esami. Perché hai voluto ambientare una storia in questo particolare contesto? La tua esperienza somiglia a quella dei personaggi?
Ho frequentato l’università a Napoli, ma Lettere, non Medicina. Però ricordo bene quel mondo: l’università  si sparge maestosa lungo tutto il centro storico ed è facile conoscersi anche tra atenei diversi. C’è stato un periodo in cui se attivavi Grindr nelle aule studio del centro potevi imbroccare almeno in tre o più utenti che erano iscritti a medicina. Non so se fosse una casualità o una verità sociologica che andrebbe a questo punto approfondita ma una buona parte degli studenti gay si dividevano tra l’accademia di belle arti e la facoltà di medicina. Sono passati cinque anni dalle lauree e adesso la maggior parte di loro si sono sparpagliati oltralpe. Ora, quando torno a Napoli, mi rendo conto che gli unici che riescono a godersi la città sono gli studenti universitari. I trentenni rimasti sono pochi e, purtroppo, molto disorientati. 




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