La prima volta che mi imbattei in Fabio Cantelli Anibaldi fu durante la visione della serie Netflix SanPa. Di lui non mi colpì subito la sostanza e precisione di parola, l’arte stregante dell’affabulazione, qualità che ho scoperto poco dopo, ma l’incompiutezza del suo stare. La sua figura chiusa in quella stanzetta d’albergo mi rimandava ad altro, a un mistero lì per lì inesausto.
Quella è stata una delle rarissime occasioni in cui mi è capitato di guardare qualcosa su Netflix e perciò l’incontro con SanPa, e di riflesso con Fabio, ha assunto ai miei occhi le tinte di un evento quasi provvidenziale.
Ci vollero solo pochi giorni, due o tre al massimo, per iniziare a cercare tracce di lui sul web – la cui celebrità allora stava crescendo a vista d’occhio – e arrivai a questa intervista uscita per Rolling Stone. Per la prima volta lessi qualcosa che si avvicinava a una risposta: parole così puntuali e scevre di rigidi preconcetti e facile retorica intorno alla droga, al perché della droga, le cercavo da tanto senza averle mai veramente trovate.
Sono sicura che siano gli incontri a scandire i nostri tempi migliori, preziose maestranze che ci ricordano le direzioni che prenderemo. E questo è solo il preambolo di una ricerca sempre in atto che mi ha portato a parlare e riflettere con Fabio, partendo dal suo libro autobiografico Sanpa, madre amorosa e crudele, ristampato a marzo da Giunti, e ritornare con lui nei luoghi fatali di Milano che hanno segnato la sua giovinezza.
Il tuo è un libro di due vite: pubblicato a metà anni Novanta con i tipi di Frassinelli, è tornato oggi a una seconda vita con Giunti. Com’è stato ritornare sulla tua voce?
È stato emozionante perché ho riconosciuto la mia voce.
Quando sono stato contattato con la proposta di partecipare alla docuserie SanPa, l’autore Carlo Gabardini mi ha detto che saremo partiti dal mio libro. Io non lo ricordavo e rileggendolo ho provato un’emozione molto forte, non solo di identificazione e di riconoscimento ma ho ritrovato le emozioni che sentii nello scrivere quel libro. Ero in una situazione molto difficile, di crisi personale aggravata dalla consapevolezza che il mio libro non sarebbe piaciuto a San Patrignano. Non perché racconto la comunità ma perché avevo uno sguardo personale sulle mie esperienze: era mio e soltanto mio e come tale non sarebbe stato riconosciuto, o addirittura considerato eretico, come poi avvenne.
Avevi più riletto il tuo libro dopo la prima pubblicazione?
No, anche perché, come racconto nella prefazione, la pubblicazione è stata travagliata. Non ho più avuto voglia di tornare a leggerlo perché mi riportava a memorie dolorose, angoscianti. La comunità è intervenuta per bloccare il libro quando era di prossima pubblicazione. Questa è stata per me una pugnalata alle spalle.
Prima dell’eroina avevi provato altre droghe?
No, in questo sono stato un tossico anomalo che ha iniziato subito con l’eroina in vena. Mi ha molto sconvolto quando a San Patrignano ho scoperto che su centinaia di persone io ero stato l’unico a cominciare con l’eroina in vena, saltando tutti i preliminari.
Al liceo vedevo i miei compagni che si facevano le canne, l’effetto non mi sembrava così interessante e poco legato alla mitologia che c’era sulle droghe pesanti, che veniva dagli anni Sessanta, dalle rock star che amavamo. Per me la droga non era quella roba lì, doveva essere una cosa seria. Mi dicevo che se mai l’avessi provata, avrei iniziato con quella seria.
Ti sei avvicinato alla droga molto giovane, ancora adolescente. Che cosa cercavi e cosa hai trovato nell’eroina che la realtà non poteva restituirti?
Soltanto in un secondo momento ho capito, ripensando a che cosa provavo sotto l’effetto dell’eroina e della cocaina, che cosa fosse quel senso di protezione assoluta, di invulnerabilità. Mi sono sentito così quando non ero ancora io, quando ero nel grembo di mia madre. Nel ricorso agli stupefacenti c’è la fame di felicità con cui veniamo al mondo. Noi siamo strappati da un Paradiso. Il Paradiso è perduto perché noi abbiamo vissuto quando non eravamo ancora noi, quando eravamo dei feti, non esseri coscienti ma esseri senzienti. Il sentimento dell’assoluto che noi abbiamo provato dentro al grembo della madre vogliamo poi ritrovarlo nella terra. Il problema è che non c’è, perché la terra è un luogo definito, non infinito.
Questo sentimento riemerge in maniera dirompente in quell’epoca cruciale che è l’adolescenza, in cui avviene una seconda nascita dell’individuo. All’adolescente viene riconosciuto il diritto di stare da solo. L’incontro con la solitudine è un’incontro decisivo, perché quando nasciamo siamo sempre accuditi, la società ci crea intorno un nido, quello da cui siamo stati strappati. Per questo la prima solitudine è un’esperienza di svolta, una cesura. Fa da cassa di risonanza a emozioni, stati d’animo, sensazioni e li fa esplodere: si passa dal bianco e nero al colore, al technicolor. Questo non vuol dir che prima noi non proviamo emozioni, ma c’è una differenza fondamentale. Un bambino non è felice, un bambino è la felicità, è l’incarnazione della vita in quanto felice, ma è incosciente di essere felice. Si è davvero felici quando si è coscienti di essere felici, come di essere tristi o malinconici. Questa presa di coscienza avviene nella solitudine dell’adolescenza, in quel frangente ci si rimette al mondo come individui, come persone diverse da tutte le altre.
L’altro momento fondamentale dell’adolescenza è la scoperta del corpo. Da bambino e ragazzino il corpo lo usi, è una protesi, uno strumento a cui non fai caso. Poi un giorno vedi il corpo da fuori, come fosse quello di un altro. Quella è una folgorazione che avrà conseguenze di vasta portata, perché è difficile che il corpo corrisponda alle aspettative basate sulle prime identificazioni estetiche.
Fabio, tu che adolescente sei stato?
Da adolescente la mia diversità la misuravo dal fatto che quando con i miei coetanei andavamo a vedere un film o ascoltare un disco tutti erano entusiasti ma a me non dicevano niente, li trovavo banali, noiosi. In quei momenti mi sono reso conto di avere qualcosa di diverso dagli altri e ho cercato di scoprire di quale natura fosse questa diversità.
La mia prima identificazione estetica l’ho avuta a quattordici anni quando in camera di mia sorella ho visto un vinile appoggiato alla scrivania. Rimasi imbambolato di fronte al viso che era ritratto sul disco, non riuscivo a staccarmene e mi interrogavo di che natura fosse l’attrazione che provavo verso quel volto, che sembrava tanto di un uomo quanto di una donna. Di fronte a questo dilemma, il mio pensiero fu di fregarmene e di voler diventare come lui o come lei. Questa è stata la mia prima identificazione: io volevo diventare come David Bowie.
Due anni dopo, quando ho scoperto il mio corpo davanti allo specchio, sono nati i guai, perché ho preso atto che il mio viso era diverso da quello di Bowie e mi dovevo accontentare. Allora mi sono detto che sarei per lo meno diventato magro come lui. Così è nato il corpo a corpo con il mio corpo. Le ho provate tutte ma non riuscivo a raggiungere quella magrezza, allora sono passato alle maniere forti: il digiuno. Penso – anche se sembra una boutade – che dall’anoressia mi ha salvato l’eroina.
Ho provato per la prima volta il digiuno nell’estate del ’79 a diciassette anni, quando mi ritrovai solo in casa per venti giorni. È stata un’esperienza sconvolgente. Durante quel periodo ho fatto digiuni da tre o quattro giorni. Quando la prima volta raggiunsi il terzo giorno di digiuno, ricordo che dovevo aggrapparmi ai mobili per stare in piedi. Non dormivo, non riuscivo più a leggere, perché il cervello non aveva più concentrazione. Ero arrivato a sera sicuro che se non fossi riuscito a dormire sarebbero stati guai. Sono andato a letto e ho avuto gli occhi sbarrati puntati al soffitto. In quel frangente è avvenuto un altro fatto che mi ha sconvolto. Volevo ascoltare musica, ho preso le cuffiette del walkman, ma non sopportavo i suoni. Mi sono spaventato. Poi un altro fatto pazzesco: a notte inoltrata ho avuto una perdita di coscienza, credo di avere avuto un collasso psicofisico. Ho riaperto gli occhi alla mattina. Ero steso sul letto e sentivo che qualcosa era accaduto ma non riuscivo a capire che cosa. A un certo punto mi sono alzato di scatto, come una molla, con più energie del solito. Il mio corpo era al massimo del vigore: era passato dall’essere un’ameba all’essere il corpo di un’atleta prima della finale dei cento metri. Mi resi conto di guardare in modo diverso gli oggetti della mia camera, che si aprivano al mio sguardo, come un fiore apre i petali al sole, mi rivelavano i loro segreti. In quel momento ho pensato di avercela fatta, di essere andato dall’altra parte. Non avevo più bisogni, non avevo più fame, stavo benissimo, avevo una lucidità mentale quale mai avevo avuto in vita mia. Poco dopo quell’esperienza tornò dal mare la mia fidanzata Cristina e le raccontai dell’estasi provata e decidemmo di riprovare insieme.
E poi pochi mesi dopo, il 2 aprile dell’80, c’è stato il mio incontro con l’eroina.
«Tutte le volte che ci sono tornato ufficialmente affrancato dalla droga, non ho mai resistito alla tentazione di giocare col fuoco, di toccare certe soglie in grado di scatenare, anche se soltanto sfiorate, forze profonde e incontrollabili». Dopo una permanenza a San Patrignano, torni a Milano il 26 settembre 1985 per una breve licenza. Una volta arrivato in città, racconti di non resistere all’attrazione che esercitano su di te certi luoghi liminari: luoghi che hai conosciuto, vissuto, in cui ti sei perduto e nei quali torniamo oggi insieme.
Cos’è questo richiamo oscuro e quasi magico che canta in noi?
Farei una premessa che spiega la natura profonda, primigenia di questo richiamo. Io, quando ho saputo che ci saremo incontrati in Ripa di Porta Ticinese, ero contento perché questi sono stati i miei luoghi. Tutto è totalmente cambiato rispetto al Naviglio dei primi anni Ottanta, però le mie emozioni sono rimaste le stesse. Questa mattina mentre camminavo mi rivedevo camminare, ventunenne, per queste strade e ho provato un grande sentimento di tenerezza per quello che ero stato. Lo posso provare oggi perché sono ancora vivo. Quelli sono i miei luoghi, luoghi in qualche modo fatali, dei crocevia, delle soglie: i luoghi della mia formazione.
Negli anni Ottanta c’erano tanti boschi a Milano, nella Milano del centro. Oggi la tossicomania è diventata un’esperienza banale a partire dal fatto che la droga è diventata una merce che si acquista con pochissimi euro e quindi al tossicomane viene risparmiato quello che noi chiamavamo “lo sbattimento”, che vuol dire alzarsi al mattino e fino a sera o notte andare a cercare i soldi per la droga. Questo ora non succede più. L’esigenza della droga è stata inglobata nel sistema del consumo. Io credo che un ragazzo che senta oggi questa attrazione verso le droghe abbia bisogno anche di luoghi, di contesti all’altezza.
Dal tuo libro si
apprende che il tuo cammino per arrivare alla liberazione definitiva dalla
droga è stato difficile, colmo di ostacoli, ricadute e sabotaggi. Uno dei
momenti cruciali di questo tuo percorso è stato quando a San Patrignano venisti
isolato e imprigionato per più giorni in uno stanzino. Scrivi che
quell’esperienza è stata per te uno spartiacque fondamentale, che ha causato
una dissociazione da te stesso, piantando il seme di una futura salvezza.
Dissociazione è una parola un po’ scivolosa perché la si usava ai tempi del
terrorismo quando accadeva che un malavitoso in carcere, in seguito a una
presunta o vera crisi di coscienza, si dissociava. La mia dissociazione non è
stata di quel genere ma un prendere coscienza di me che ha coinciso con il
prendersi cura di me. Il momento cruciale, dopo molti giorni rinchiuso nello
stanzino del parco di San Patrignano, è stato il passaggio dal culmine della
disperazione e dell’angoscia a una consapevolezza superiore che non avevo mai
frequentato, a cui non ero mai arrivato e a cui corrispondeva un’inopinata
tranquillità che io percepivo in tutto il mio essere. In quel momento è
avvenuta la dissociazione. Io mi sono guardato da fuori e mi sono visto, ho
visto la mia alterità e mi ci sono riconosciuto, mi sono impietosito di come
ero diventato e mi sono detto che era arrivato il momento di prendermi cura di
questo. Da lì è nato il faticosissimo cammino di liberazione dalla dipendenza,
perché non è che da quel momento io non abbia più avuto esperienze con le
droghe, però era avvenuto uno scarto decisivo. Quando ho avuto successivamente
altre esperienze con gli stupefacenti, io sapevo che mi stavo drogando e il
fatto di saperlo rendeva tutto molto più difficile. Una parte di me sapeva che
stava facendo qualcosa di già concluso, un’esperienza già fatta. In quei
momenti entravo in crisi, perché poi mi bucavo lo stesso ma rimaneva nel fondo un
lembo di consapevolezza che rendeva l’esperienza della droga un po’
angosciante. Per arrivare a questa consapevolezza Vincenzo Muccioli sapeva, e
non era garantito che funzionasse, che l’unico modo era mettermi nelle
condizioni di incontrare me stesso. E così è accaduto. A un certo punto dentro
la stanzino ero talmente disperato che chiesi ai miei carcerieri un libro da leggere
ma mi fu negato perché Vincenzo non voleva che io avessi distrazioni. Voleva
che arrivassi al punto in cui si sarebbe rotta una sorta di corazza, oltre la
quale c’era la visione.
Nel tuo libro prendi
una posizione molto netta sulla possibilità di legalizzare le droghe cosiddette
pesanti: «Se l’eroina, gli allucinogeni,
le amfetamine, la cocaina fossero legalizzati e naufragassero definitivamente
nel mare magnum della stupidità
consumistica, la droga cesserebbe automaticamente di essere quello che è: uno
straordinario indicatore del disagio e dell’orrore della nostra civiltà. E io,
in quella lontana San Patrignano, avevo creduto che qualche significativo
cambiamento – nell’arte, nella poesia, nella letteratura, nella cultura in
genere – potesse derivare proprio dalle persone che hanno attraversato il
deserto della tossicomania, facendo pienamente e dolorosamente esperienza della
frammentarietà dell’io, ossia della verità profonda del nostro tempo».
Senza compiacimenti, devo dire che sono stato un buon profeta. È quello che
è avvenuto: adesso la droga è questa cosa qua e a me fa orrore. La riduzione
del danno è diventata una sorta di ideologia. Una misura che ha avuto il suo
senso trent’anni fa quando la droga era una guerra di trincea che lasciava
quotidianamente morti e feriti sul campo ed era giusto e sensato occuparsi di
quei tossicomani che non volevano andare in una comunità cercando di ridurre la
possibilità del rischio di morte, anche perché erano gli anni dell’AIDS senza
terapie efficaci. Però, come spesso capita in questo Paese, si è cercata una
scorciatoia: ci si è molto concentrati sulla riduzione e ci si è dimenticati
del danno, con la conseguenza che la vera riduzione del danno l’hanno fatta
oggi le mafie. Se le mafie permettono che l’eroina venga venduta a cinque euro
a dose vuol dire che il numero dei clienti è almeno dieci volte tanto rispetto
ai nostri tempi, solo che oggi i tossici sono invisibili, perché integrati. Non
sono più elementi di disturbo dell’ordine pubblico: i tossici degli anni Ottanta,
e io mi metto tra quelli, scippavano, rapinavano, si prostituivano, andavano in
farmacia con la siringa piena di sangue dicendo che era sangue infetto da AIDS.
Avevamo delle esigenze fuorilegge perché il narcotraffico ci costringeva. Queste
esperienze per me – e beninteso lo dico perché sono ancora vivo – sono state
fondamentali per capire qualcosa di me stesso e qualcosa della droga. Io ho
capito il prezzo che dovevo pagare per questo presunto amore, un salatissimo
conto. Ogni giorno voleva dire svegliarmi al mattino con l’ossessione di
trovare soldi, soldi e soldi. A me, che avevo avuto un’adolescenza con degli interessi
forti, sembrava di stare buttando via la mia vita: non riuscivo più a leggere,
a guardare un film, ero sempre e solo dietro alla droga. Ma quanto arriva il
momento in cui ti inietti la droga, tutto si giustifica. Adesso tutto ciò non
esiste più: la droga è diventata un articolo di consumo.
Ma la verità, che bisogna dire a chi parla di droga senza sapere cosa sia, è che
la vita del tossico, sia che rubi, che vada in galera, sia che sia un tossico
integrato, è una vita indegna perché l’eroina in un modo e la cocaina in un
altro, ma anche le altre droghe sintetiche come la chetamina che hanno effetti
molto simili, ti congelano e ti anestetizzano i canali emotivi. La beatitudine
della droga coincide con una forma di anestesia dell’essere. I canali emotivi
sono quelli per cui ci attraversa la vita, se chiudi quei canali sopravvivi
organicamente ma diventi uno zombie. Tra vivere e sopravvivere c’è una
differenza enorme. È Socrate che ci ha spiegato che una vita senza ricerca non
è degna di essere vissuta. E se io non posso cercare allora preferisco morire.
Per me morire è una scelta di vita, non un suicidio, rispetto a una mera
sopravvivenza, che non mi interessa.
C’è molta ipocrisia in giro e il problema della droga è un problema enorme.
Molte madri mi raccontano della loro disperazione oggi perché non hanno aiuti.
Le dipendenze esistono ancora. È una vita di merda quella di chi dipende.
Foto e video di Silvano Richini