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Questa oscura chiarezza che uccide le stelle. Note sulla crisi del metodo



«Non più nelle università. Al pensiero sarebbe quanto mai utile un periodo di occultamento, di vita clandestina e camuffata, da cui tornare a emergere in una situazione che potrebbe avvicinarsi a quella dei presocratici». Il verdetto di Calasso, ai tempi dell’Innominabile Attuale, era inappellabile. O che si voglia credere che il pensiero, quello autentico, sia sempre stato votato alla clandestinità, prolungando sul pensiero occidentale tutto il ghigno della gnosi; o che si ritenga al contrario che questa sopraggiunta clandestinità sia figlia dei nostri tempi, sorpresi al crocevia tra accademismo spicciolo e divulgazione sterile – crocevia che, a volergli trovare un incipit simbolico, si potrebbe ricondurre alla polemica tra Nietzsche e Willamowitz – il pensiero è forse salvo, il metodo è senza dubbio perduto. Anche a voler cedere al pessimismo più radicale, quello dei laudatores temporis acti, il pensiero resta, sottoforma di libri, di aforismi, di tradizione – il metodo no, non più, ne restano le vestigia di scherno, la traccia, nei libri, del suo passaggio.

Di tutti i più risoluti attentati alla filosofia – da Hegel in poi, ogni suo sventato funerale – il peggiore di tutti è la democratizzazione del termine filosofo. Termine che sempre di più si avvicina a certe manie di self-help che con il pensiero non hanno nulla a che spartire, se non nella misura in cui inconsapevolmente tradiscono lo stato di disagio in cui sguazza la nostra civiltà attuale.  La filosofia è una cosa diversa dal trovare se stessi in chiave narcisistica – ben più pugnace, mai rassicurante, men che meno indulgente. «Un pensiero astratto è sempre spietato. È il pensiero più pericoloso, e il più meraviglioso», disse una volta Jung. Parole che Wittgenstein avrebbe ratificato fosse stato consapevole in toto sul suo stato folle di vita.

Viviamo in un’èra di Bignami. La filosofia ha sempre contemplato come qualità sua propria il ‘gancio’ con la tradizione – ma non saranno le scorrevolezze di Han, con il suo mare di note a piè di pagina colme di buone intenzioni, a ridare un senso a una disciplina che più volte si è invocata morta. Piuttosto che creare libri-zombie, in cui la divulgazione e l’ammasso delle citazioni si illudono di essere pensiero originale, faremmo bene a porci la domanda distruttiva: si può ancora pensare? Domanda che ne implica almeno due, sottotraccia: si può ancora pensare qualcosa di nuovo? Il pensare, quello autentico, è sempre nuovo?

Di fronte a certi scadimenti, la pulsione di ritornare a Parmenide, di tornare a un’epoca in cui la filosofia sapeva espellere, è forte. Ma la perdita di un’organicità e al tempo stesso l’eterogeneità implacabile delle interpretazioni rendono regressoria e ingenua ogni idea di tradizione, ogni retorico richiamo alle origini. Se la filosofia dovesse ripensarsi in toto – ma non ne ha più le forze – proprio sulla questione dell’origine dovrebbe specchiarsi, denudarsi. Questo fantasma dell’origine la accompagna sin dal suo albore, perlomeno in Occidente – l’ἀρχή della filosofia è stata la ricerca dell’ἀρχή, ma questo non ci obbliga, di per sé, a continuare pedissequamente questa Totentanz. Tanto più che, prima nella sola teologia cristiana, poi anche con Hegel secolarizzatasi, l’altro grande spauracchio del pensiero occidentale è stato il discorso della fine, l’escatologia, quel ‘certo tono apocalittico’ sorto dalle ceneri dell’Illuminismo, per non dire già col terremoto di Lisbona del 1756. Ancora una volta, e a maggior ragione, risorge l’impulso di un ritorno a Parmenide – impulso illusorio eppure motivato, se con Parmenide si è consumato un invisibile e reversibile passaggio di consegne tra l’ἀρχή e l’ἀνάγχη, tra l’origine e la necessità. Unde malum?

«Strumenti d’analisi» ispirati «all’antropologia, alla storia, alla storia della letteratura, alla psicologia, alla filosofia, o alla teologia». Così l’intellettuale francese René Girard sintetizzava il suo metodo – straboccante. Ma una simile collegialità di diverse discipline all’interno della medesima Interpretazione la postulava già Umberto Eco, e sin dai tempi di Apocalittici e integrati. «L’indagine sulle strutture del prodotto può solo preludere a una ricerca interdisciplinare», si leggeva al termine del celebre capitolo che proponeva una lettura semiologica del fumetto Steve Canyon. In questa interdisciplinarità di fondo, «l’estetica può definire le modalità di organizzazione di un messaggio, la poetica che ne sta alla base; la psicologia studierà la variabilità degli schemi di fruizione; la sociologia chiarirà l’incidenza di questi messaggi nella vita dei gruppi; economia e scienze politiche dovranno chiarire i rapporti tra questi mezzi e le condizioni di base di una società», e così via. Least but first, si arriva all’antropologia culturale, che avrà il delicato compito di stabilire «sino a quel punto la presenza di questi mezzi sia funzione del sistema di valori, credenze, comportamenti, di una società industriale, aiutandoci a capire che senso i valori tradizionali dell’Arte, del Bello, del Colto, assumano in questo nuovo contesto», dominato dalla tecnica e dai mezzi di comunicazione di massa.

Se la filosofia sanguina, la scienza non ride: tanto è vero che mai come in quest’ultimo decennio la scienza stessa è stata messa in crisi. E magari fosse un rigenerante crollo dei fondamenti, un discorso para-ontologico sui principi della scienza che faccia luce anche sulla condizione umana, quale fu quello che si consumò all’inizio del secolo scorso, tra Einstein e Heisenberg. La crisi della scienza attuale è innanzitutto una crisi della percezione della scienza, come testimoniano le legioni di complottisti, No-Vax, misteriosi propugnatori di metodi di medicina alternativi o peggio ancora ‘naturali’, No-Mask, No-Covid – accomunate tutte da un tripudio di negazioni dalle saporite implicazioni cognitive e antropologiche.

Di fronte a questi fenomeni, sarebbe facile arroccarsi in posizioni aristocratiche, e illudersi che questa crisi della mentalità scientifica sia sopraggiunta unicamente perché, per dirla con l’ultimo Eco, «i social hanno dato anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino» – ma in questa battaglia di fango fuori tempo massimo contro la scienza si sono gettati con slancio anche i filosofi, o almeno gli ultimi sedicenti tali.

Filosofi contro scienziati – non sentivamo la nostalgia di una Controriforma. Il ‘caso Agamben’ e altri che si sono succeduti in questi ultimi mesi pandemici, sono un segno dei tempi ben più inquietanti della pandemia in sé. Che la filosofia non sia mai arrivata a pensare sino in fondo uno degli oggetti suoi più propri, la libertà? Perfino Heidegger, parlando dell’essenza della verità, la identificava nella libertà – e poi sviava.

La lezione di Adorno. E se il problema fosse il concetto stesso di unità? Proiezione illusoria di un’individualità epistemica essa stessa problematizzabile? Non per nulla, uno degli ultimi, paradossali apporti della matematica all’esistenzialismo si può riconoscere nella cosiddetta teoria del caos, codificatasi nella seconda metà del Novecento, una possibile risposta a Quando abbiamo smesso di capire il mondo, quell’invidiabile titolo adottato da Benjamín Labatut per il suo saggio più fortunato. Ma la fine del principium individuationis faceva parte dell’agenda intellettuale dell’Occidente sin dai tempi dei più sacri misteri antichi – solo che la filosofia, e dopo di essa le scienze tutte, ha preferito calcare altri campi del pensiero, generalmente parlando. La matematica ha saputo ritrovare certi problemi principe dell’Indeterminazione solo nell’ultimo secolo, o secolo e mezzo – laddove la tragedia greca già ne straboccava.

Per bocca dei suoi ultimi propugnatori novecenteschi, un’altra disciplina può affiorare – la madre delle scienze e della stessa rinascita della filosofia occidentale, benché poi ripudiata. La teologia, oggi, ha la sua paradossale attualità nel riconoscere un mondo assente, un mondo ormai virtualizzato. E poche branche del pensiero sono state adoperate con tanta insistenza nell’ultimo triennio, quanto la sacra tradizione dell’escatologia occidentale definitivamente delimitata da Taubes – anche se ben pochi se ne sono accorti, di questo ritorno a Patmos. Non è parlare di Dio, più, l’ambizione – e neanche parlare dell’uomo, che ormai si è fatto argomento strafatto. È parlare del Vuoto.

Teologia in assenza di oggetto – e nella fragilità del soggetto, questo è il meglio che il riesumare la tradizione possa offrire. Se il già citato libro di Labatut, il quale mette nero su bianco una sensazione che, dopo il Novecento tra stermini e relatività, accompagna molti degli uomini pensanti: non è all’irrazionalità stessa che conviene rivolgerci per spiegare questa sopraggiunta inesplicabilità – è al suo abbandono. Oscuri concetti paolini come quello della kenosis – non meno di quanto il katechon abbia consolato Carl Schmitt, dopo il disincanto nazista – d’improvviso ci inondano di una nuova luce. Cinosi: l’idea che Dio, per creare il mondo, si sia ritirato, contratto – non meno di quanto Cristo abbia simbolicamente «rinunciato» alla sua divinità, stando appeso sulla Croce.

Di fronte a idee di simile potenza, e di così impellente fragilità, di fronte a idee da secoli nascoste in piena luce, nel testo che più di ogni altro ha plasmato l’immaginario occidentale nell’ultimo distico di millenni, l’atteggiamento più ottuso è quello di parafrasarli, razionalizzarli, tentarne un’interpretazione allegorica – in questo ha fatto già abbastanza danni Agostino d’Ippona, sul corpo già morto dei classici. Di fronte a parole come kinosis, o come lo stesso katechon, non vale la pena nemmeno di tentare la carta sempre impervia della secolarizzazione, diagnosticata da un più giovane Schmitt rispetto alla scienza giuridica tutta. Certi simboli concettuali non sono altro che archetipi dello spirito – lo sapeva bene James Hillman, che nei saggi poi raccolti sotto il titolo di Figure del mito ha saputo proporre la più equilibrata rilettura del mito che la psicoanalisi potesse col suo linguaggio proporre, a prescindere da ogni edipizzazione.

«Solo pensando ancora più follemente dei filosofi si possono risolvere i loro problemi», scriveva Ludwig Wittgenstein in uno dei Pensieri diversi. È un calcolo abissale, che solo un pensiero aracnide, e disperato, può scorgere – ma un approdo lo si dovrà pur tentare. Nelle impossibilità congiunte di una sortita radicale dalla tradizione filosofica e di una rinascente fede semplicistica e salvifica in Dio, una religione senza fede è il passo meno indolore – è il cuore del chiasmo. Ma il pensiero occidentale ha sempre nutrito un certo affetto, per i crocevia – non meno di Edipo, omicida per noia e per orgoglio. E così siamo qui, oggi, di fronte a un pensiero che si è sempre voluto pensare morituro – testimone il Derrida di Di un tono apocalittico... – e che forse, a furia di gridare al lupo al lupo esorcizzando la sua fine, ci ha lasciato le sue penne davvero, o le sta lasciando, nel Leviatano digitale che è il più ovattato degli orrori, e il più prossimo dei paradisi – artificiali.

«Come ridare un senso alla parola ‘umanesimo’? Come salvare l’elemento di avventura che comporta ogni ricerca, senza fare della filosofia una semplice avventuriera?». Da questa duplice domanda di Jean Beaufret prese le mosse la celebre Lettera sull’umanesimo di Heidegger, il testo che segnò il suo riscatto filosofico dopo la disfatta nazista. Su questa domanda possiamo abdicare anche noi – riuscire fallendo. Ma l’umanesimo ha ancora un senso? È ancora una necessità? Ultimamente più che con l’umanesimo sembra di avere a che fare con una forma nuova di un vizio intrinsecamente moderno, la piccineria. Complici i social, si è imposta una forma di sfrenato soggettivismo – ognuno cerca, pubblicamente, di esprimere una propria opinione e di applicare le proprie personalissime categorie alla percezione del mondo esterno, e tutti, dagli utenti più generici ai più fini intellettuali, sembrano aver perduto la capacità di un’interpretazione autentica. La teologia anche in questo potrebbe dare nuova linfa ermeneutica, nella grande tradizione del commentario, del seguire passo a passo i versetti, senza sovra-interpretare, ma cercando di far parlare, anzi respirare, il testo: ma a prescindere da ogni riferimento a un passato ormai inattingibile, a tradizioni ormai desuete, bisognerebbe pensare, più che pensare di pensare.

«Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani, mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?». Ogni volta che si sente parlare di rinascita o di resilienza, vale la pena rileggersi l’Ernst Jünger di Oltre la linea. Ma anche in questa immagine di Troia in fiamme può albergare un pregiudizio gratuitamente catastrofico, e tanto “fine” quanto “crisi” sono concetti a loro volta problematici: fine, per il suo assolutismo apocalittico, crisi, per l’illusione d’una catarsi che ogni idea di fine-del-mondo porta con sé. L’apocalisse è un’ingenuità: il mondo non finisce, si è sempre, si sarà sempre in un non-ancora, in un differimento della pena. L’esperienza ebraica del messianesimo mancato, a suo modo estremizzata da Kafka, così come il vissuto protocristiano della parusia “saltata”, abbondantemente trattata da Quinzio, rappresentano delle anticipazioni archetipiche di una forma di esistenzialismo assolutamente moderna: l’attesa forsennata e frustrante di un miracolo che non accade, di un sogno che non si avvera, di un futuro migliore alle porte che di anno in anno si conferma non peggiore – solo, più grigio. La cronaca non ha più eventi, col digitale siamo approdati a un fuori-dalla-storia che è ben diverso dalla metastoria. Un passo ancora, ed è Beckett.

Se il pensiero vorrà davvero ripensare se stesso – e non trincerarsi in un masturbatorio amore per il sapere in cui enciclopedismo e citazionismo si contendono il titolo di filosofia – è dalle sue categorie più profonde che deve ricominciare. A partire da quella di Inizio – se ne può uscire? Sta qui il controsenso della tradizione, il suo contraccolpo – l’impresa ironica e disperata di aggirarsi in un palazzo antico e ormai deserto, ammirando con convinzione le statue ma cercando di non imitarne le pose. Ma c’è ancora una via d’uscita, o siamo nel gorgo di un labirinto lovecraftiano? Se la tradizione è una zavorra, che cosa del pensiero passato va preservato? La posa, piuttosto che il contenuto e le categorie?

L’ultima inquadratura, l’ultima categoria che ci può salvare è paradossalmente ancora oggi quella dell’Assoluto. Un Assoluto, evidentemente, che sfugge a ogni fede, e che trascende ogni teologia. Un Absolutus che, per giunta, è anche Absolvens – capovolgimenti sacrificali, il cacciatore che diventa preda e che, con il Cristianesimo, diventa la sua stessa preda – e in quanto Absolvens può permettersi davvero un’apocalisse epistemologica, la cessazione, e non precisamente la fine, di questo vizioso stato di cose. Ancora una volta, ci troviamo al cospetto di Parmenide, di una divisione radicale, di un redde rationem applicato al nostro mondo, ai nostri sensi: da un lato, il contingente, il superfluo, il velleitario, tutto ciò che di cronachistico e di quotidiano accompagna le nostre vite. Dall’altro lato, ammesso e non concesso che qualcosa ancora ne sussista, se si riuscisse a far riaffiorare da quell’abisso che è il sacro il senso puro e ‘assoluto’ del termine Assoluto, per renderlo un punto di fuga da cui leggere e inquadrare il nostro tempo in fuga, questa sì che sarebbe una vittoria, questo sì che segnerebbe un merito, postumo, della filosofia.

Un tempo, di Dio si parlava solo via negationis: adesso, simmetricamente, si potrebbe scoprire dall’ottica di un assoluto desacralizzato ciò che la nostra società effettivamente è – o, perlomeno, ciò che la nostra società non è più. Si scoprirebbero allora archetipi, strutture di ogni genere, atteggiamenti dimenticati e verità obliate che riportano drasticamente al presente le fondamenta nascoste delle nostre civiltà. Le ninfe non sono fuggite via dai sacelli, come voleva Eliot: si sono però trasformate, involgarite, barbarizzate, in un’ultima metamorfosi, che le ha trasformate ora in modelle di pubblicità osé, ora in star del cinema, in un ultimo catasterismo – come argomentava Hillman, come commentava Calasso – ora nell’inquieto rimpianto di un femminino lustrale. Da Parmenide fino a Wittgenstein e oltre, il compito insistente della filosofia è stato quello di correggere e affinare la percezione e l’esperienza umane, partendo dal presupposto – pure discutibile – che queste fossero intrinsecamente erronee, fuorvianti; e la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno è al tempo stesso sufficientemente laica e sufficientemente metafisica per fornire le basi a qualcosa di nuovo, ancora senza-nome, che possa recuperare anche il buono del vecchio. Se la filosofia vuole ancora avere un senso nel XXI secolo – cosa che nessuno l’ha implorata di fare – al di là delle velleità accademiche, dovrà rivolgersi alle origini, per andare oltre alle origini, dovrà tornare al sacro, per travalicare finanche il sacro, in un costante ethos del trascendimento che la riporti a sedere sul trono delle più alte possibilità cognitive umane, per tornare a rappresentare il pensiero occidentale nelle vette più ardite ed echeggianti che la nostra civiltà sia riuscita ad ottenere.

«Ho detto una volta e forse con ragione: la civiltà passata diventerà un mucchio di rovine e alla fine un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti», scrisse, un’altra volta, sempre Ludwig Wittgenstein.




In copertina e nel corpo del testo dipinti di Anselm Kiefer, Burri e Guaitamacchi

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