«Non l’adozione, bensì la guerra del Vietnam, fu il vero cruccio della mia prima infanzia», scrive come per una necessaria distrazione che possa allontanare la ferita Maria Grazia Calandrone in Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021). Segue, nella pagina di fianco, un dipinto del padre, quel padre che torna a casa di notte dopo un lungo viaggio, con la valigia carica di doni esotici. Come fossero oggetti transizionali, un risarcimento – per cosa? Per la piccola Maria Grazia, rimasta orfana a otto mesi, abbandonata dalla madre e dal padre a Villa Borghese, a Roma, prima che i due (lei di sicuro, su di lui si sommeranno ipotesi, dubbi, interrogativi) si uccidano gettandosi nel Tevere? O risarcimento per l’amore sfuggito di mano, rimasto a segnare le linee della vita e del successo come un chiaro destino, illuminato dalla parola della poesia?
E domande ce ne sono molte, in questo libro che non è, a dispetto della dicitura in copertina, un romanzo. Prosa poetica, memoir, infedele come tutti i memoir per il lavorio del tempo, lunga lettera alla madre adottiva, Splendi come vita (da poco presentato al Premio Strega 2021 da un altro poeta, Franco Buffoni) rifugge i generi. È, per i motivi – i disegni – cui abbiamo accennato poco sopra, un iconotesto, ed è al contempo testimonianza di uno dei fatti di cronaca nazionale che maggiormente colpì la sensibilità pubblica nel lontano 1964.
Titolarono i giornali: «Non ha più nessuno», raccontando la tragica vicenda con la quale si inaugurò l’esistenza della piccola Maria Grazia, divenuta subito, grazie alla velocità con cui viaggiano le notizie su giornali e televisioni, la figlia adottiva d’Italia, stretta attorno alla sua storia. Un filo che per lei ha il viso moro di Consolazione, madre per scelta e per vocazione, il solo amore nel quale riconoscersi, e dentro cui esistere. Un amore, tuttavia, che è proprio la madre (o Madre, come la chiama l’autrice, trasformandola in simbolo e archetipo, incarnazione di tutte le madri) a trasformare in arma da rivolgere contro se stessa: a partire da una enorme, spietata, pretesa di sincerità: a quattro anni, a Maria Grazia si impone la differenza tra Madre e Madrevera. «Col tempo la notizia scavò un solco oceanico nel mistero affettivo di madre, tra lei e l’amore che portavo. Che non ha visto mai più. Ma io ero fatta tutta di quell’amore, non avevo altro».
Da lì in avanti, dall’origine di quello strappo così emblematico, l’origine di una lettera d’amore e di disamore alla madre adottiva, alla ricerca delle cause e delle colpe che hanno decretato la cacciata dal paradiso terrestre: il regno della madre, quello in cui non è più concessa la magia della trasformazione della forma eterea dell’amore nel liquido del sangue.
Ciò che emerge dalle pagine di Calandrone è, nonostante tutto, una tela luminosa come i suoi versi. Sullo sfondo di una letteratura affamata di strappi e di irredimibili mutilazioni, Calandrone traccia la storia di una perdita che è, al contempo, la storia di una nascita: quella di una formazione poetica che, frattura dopo frattura, ha scavato lo spazio alla gioia, dando il via a una delle esperienze poetiche più prestigiose e felici della nostra contemporaneità. «Ho trovato la pietra filosofale, l’officina alchemica dove ogni dolore viene ridato al mondo come bellezza. Bussole e armi dei disarmati sono le parole». Disarmati e disamati, che abitano le pagine di Calandrone trovandovi non già lo strazio, ma il calore delle parole per dirsi, non il pianto – del resto «il disamore avvolge i letti dei bambini fra le spire di un pianto non pianto. I bambini non amati non piangono» – ma la memoria dei momenti cari perché comuni, indimenticabili perché minimi, come la neve che cade su Roma. Sarà questo che consegneranno al presente (e ai lettori) due donne adulte, un commiato che chiude i cerchi.
La scaturigine della prosa di Maria Grazia Calandrone risiede senz’altro in quel territorio pluristratificato e carico di senso della poesia “fossile” (amorosa) della poeta, o in quella più esplicitamente civile che si appella a una morale che è al contempo personale e collettiva. Da qui il senso di responsabilità irrinunciabile di chi come il poeta sceglie le parole, e la convinzione – esplicitata da Calandrone nel suo ultimo lavoro in versi Giardino della gioia che «siccome nasce/come poesia d’amore, questa poesia/è politica».
Se è vero come scritto in un’altra poesia che «accogliere la gioia è il mestiere di tutta una vita», questo libro è il tentativo, assai felicemente riuscito, di risignificare il trauma infantile riverberato su un’intera esistenza, non diradando le ombre ma andando a prendere per mano, nella tenebra, quel piccolo spazio salvifico – in lavorìo costante e in costante mutamento – che siamo soliti chiamare amore.
Immagine copertina: Frederic Leighton