Ada, Ada, Ada, Ada. Un nome che si ripete quattro volte, per quattro storie diverse e uguali.
Ben cinquecento secoli di storia e oltre seimila chilometri di spazio riempiono le pagine dell’esordio dell’autrice inglese di origini ghanesi Sharon Dodua Otoo: il suo esordio, Una stanza per Ada, pubblicato in Italia da NN editore nella traduzione di Fabio Cremonesi, prima lascia interdetti, poi sorpresi, poi intimamente appagati. Un appagamento raggiunto grazie alla sua natura poliforme e all’ambizione – evidente, come fosse un quinto personaggio – che ne sostiene la struttura.
In un’intervista rilasciata dall’autrice a Deutsche Welle (DW) nel 2016 a seguito della sua vittoria del premio Bachmann, si legge: «Ho pensato che questa fosse un’opportunità per raggiungere molte persone: mi piace usare umorismo, confusione e sorprese e penso che questi elementi nella mia scrittura creativa aiutino le persone a recepire i messaggi che sto cercando di trasportare in un modo più profondo che funziona meglio delle grida polemiche. Non voglio affatto sminuire l’attivismo politico quando lo dico, ma penso che a volte ci siano dei meriti nel fare le cose in modo sottile.»
Anche in Una stanza per Ada non c’è, propriamente, attivismo: non è evidente, come altre tipologie di romanzi dichiaratamente schierati. Eppure, in ognuna delle sue parti, esso è a suo modo pregno di libertà, di resistenza, di emancipazione. Senza sostare troppo sulla prima evidenza in tal senso – l’ispirazione woolfiana del suo titolo – non sorprende, in secondo luogo, che a essere raccontate siano sempre donne facenti parte di una minoranza, o donne cui è stata sottratta, con violenza, una parte di sé. Da quest’emarginazione Dodua Otoo costruisce la cinta muraria del suo palazzo creativo.
La prima Ada a comparire vive in Ghana nel 1459. Ha appena subìto un lutto: ha perso suo figlio, appena nato. È costretta a lasciar andare quel corpo ancora caldo, e le perdite precedenti in nessun modo possono confortarla in questo dolore. La seconda Ada è una pioniera: a Londra, nel 1848, è la prima donna a lavorare con i computer mentre intrattiene una relazione extraconiugale con uno sconosciuto qualunque, Charles Dickens. La terza Ada si prostituisce nella Germania nazista in uno dei tanti campi di concentramento nel 1945. La quarta e ultima Ada è a noi contemporanea: giovane donna nera, incinta, sta cercando un posto dove vivere nella Berlino del 2019.
Se sono quattro le storie, esse non seguono una traiettoria lineare, bensì si alternano, talvolta di capitolo in capitolo, talvolta all’interno della stessa pagina. È facile che, mentre un occhio sosta ancora sul rigo precedente, ambientato nel XV secolo, ci si ritrovi improvvisamente, durante la Seconda Guerra Mondiale. Alla struttura già ambiziosa, l’autrice aggiunge un ulteriore elemento, i cui risultati creano forse un sovraccarico narrativo compromettendo la fruizione delle quattro storie. È il narratore, che nella prima parte del romanzo è affidato, di volta in volta, a una scopa, a una maniglia, a una stanza. Narratore e allo stesso tempo strumento o sfondo della vicenda. Si assiste così a una scollatura tra l’asetticità del processo di oggettificazione da un lato, la resa stilistica dall’altro.
Se ciò inficia, anche se solo parzialmente, l’approccio al testo, non compromette però il valore sociale e culturale dell’opera, che resta portentosa e originalissima. È come se ogni donna, ogni Ada, grazie a Sharon Dodua Otoo avesse l’occasione di rinascere in un altro luogo e in un altro tempo; ed è come se la Storia, incurate del passato, disattendesse sempre le speranze, confermando la brutalità, destinata a perpetrarsi, dagli esseri umani sugli esseri umani.
In copertina Globe di tetracarbon su Pixabay