Zelota dell’analogico, lo affibbia al digitale per salvarlo alla polvere e permettere agli archiviatori di domani di classificare Prosecco, pannolini e pappa per il gatto. Piccole grandi storie della nostra vita in 150 liste della spesa tra i reperti di un passato bravo.
Dalla vigna friulana, terra di santi bevitori e bestemmiatori sinceri, Giulio Castoro arriva allitterando, per Il Saggiatore. Centocinquanta liste della spesa, battute a mano nell’Italia nostra – patria del cibo buono e della dieta alla healthy supersize-me – che figurano incorniciate da un chroma key psicologico: «Mi sono divertito a immaginare le case della gente», erutta sincero l’udinese (trentatré anni, casa e lavoro – per tivvù + web – a Milano), «tramite questi “diari segreti”, confessioni che facciamo a noi stessi su ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere».
Prima di aprire, nel 2018, l’account @insta_della_spesa, al quale approdano quotidianamente circa trenta elenchi pro-supermarket, Castoro ha conservato il materiale (2500 liste, a oggi) con certo goloso, geloso voyeurismo. Poi, la voglia matta di condividere «un gioco divertentissimo: una sedia messa fuori dal pianerottolo per spettegolare sulle vite di chi ci passa davanti. Un tentativo ancora inesplorato per indagare la famosa “pancia del Paese”, provando proprio a guardare cosa ci sia all’interno di essa».
Maniaci del carrello o della sporta a mano. Habitués o sprovveduti. Anziani e bambini, single e coppie. La lista della spesa è un livellatore sociale che guarda in faccia nessuno se non il salumiere – quando declama il tomboliere del turno in coda. «Sono io il 69, io!», siam pronti a rivendicare. Ma quanti aprirebbero la mano per spartire il pizzino – «io, l’ho scritto io!» – portato da casa, su cui sono fregati i porno-etti di culatta?
Castoro, per alcuni di quei fogli lì, ci ha (quasi) rimesso la dignità; davanti agli adocchiamenti di prodotti d’antan viene preso da certe «nostalgie fonetiche» fortissime: una sgrammaticata bottiglia di vermouth evocò «un party sabaudo sotto la direzione artistica di Monicelli» e impose il pedinamento d’una vecchina. Per dire.
Il libruccio è ghiotto. Tutte le sbirciatine alle dispense mettono poca fame, molta allegria. Sono anche gli errori, certo, a servire le risa già a pagina tredici; «chigui» e «cekaptciup» competono con «crecer» e «cerioli», arrivando al nastro trasportatore pari merito frastornati.
Subentrano poi i velati dialettismi (dove si laverà Mr. X, col nuovo shampoo, i «cavei»?). Nonché la mercanzia in sé (si domandano «panda» come «marmellate scure» o «Gigi Proietti» d’asporto). Il colpo di coda viene dalle calligrafie, parametro con il quale sono state ideate le sette arbitrarie categorie per «Prosecco»; tremule, giganti, sferruzzate, millimetriche, storte, molli, rigide, cascanti: alle casse batta prezzo il grafologo.
Taglia infine la testa la riga di commenti dell’autore, tragicomici. Abituato a comporre storie, qui le inventa a partire dalla materia prima vera e propria, dalla mollica. «Panettone» e «cocomero», affiancati sul medesimo scarabocchio, gli prudono così: «Esisterà una parola tedesca per le persone che provano nostalgia del Natale e dell’estate nello stesso momento?». Sicuramente scampano una lei o un lui schiacciati dal Kummerspeck degli zuccheri, dalla pancetta del (sottile) dispiacere.
Sotto altro spleen hanno listato i più. Lo si capisce dal tipo di carta, dall’arraffo di una superficie scrivibile. In tanti hanno agguantato blocchetti farmaceutici. E sacchetti, cruciverba, agende, buste in stralci di forma Rorschachiana. Basta che si possa inchiostrare, insomma, perché poi è da – ehm – gettare.
Via libera anche agli sgorbi scacciapensieri, sui margini d’un materiale riciclato; i disegni, a volte rudimentali still life, altre vignettistici priapismi, infoiano la mimica dei committenti. Quasi tutte le liste difatti sono ordini intimati con cauta gentilezza a chi per noi varcherà la soglia del discount; mozzi dialoghi esclamativi, cui a patate e bresaola s’aggiungono minacce, richieste d’affetto, dichiarazioni amorose. S’è visto anche lo schizzo, a volo d’uccello, di un grande magazzino e delle sue corsie trabocchetto; la planimetria fuori catasto figura più pericolosa delle terre di Mordor.
Prosecco, pannolini e pappa per il gatto rientra incosciente nel genere lasagnesco, del trattato multi-strato. È un’indagine merceologica, con tanto di loghi, sulle derrate tricolori: gli italiani, sembra, ingozzano felici carboidrati e carnazza, lasciando frutta, verdura e pesce (qualche vongola c’è: strizza le valve al tonno in scatola) nell’angolino buio del piatto. È un tentativo di salvataggio dall’estinzione: tra spese online e frigoriferi intelligenti, il futuro sarà deserto di liste in cellulosa; questo è il lor memento mori, in gaiezza (in guazzetto), zufolando «It’s the End of the World as We Know It».
È (soprattutto) il resoconto visivo sulle dinamiche di trofallassi tra conviventi: entro il formicaio domestico – grande o piccolo, sacramentale o straordinario: who cares – il flusso di cibo, i ritmi di scambio alimentare, dettano ancora la marcia borborigmica della collettività. Avanti marsch, una Nutella alla volta.