Capita, talvolta, che sui social ci si interfacci con testi letterari diventati virali in ogni angolo di Internet. Si sparpagliano attraverso le piattaforme più disparate, subendo rimaneggiamenti e reinterpretazioni grazie alla cultura partecipativa del web, che ne consente la circolazione e la diffusione.
Ed è così che mi sono imbattuta nei primi versi di The Orange di Wendy Cope, diventata la nuova poesia cult della Gen Z. Sotto forma di fotografia, di fan art e di voice over l’attacco «At lunchtime I bought a huge orange» ha cominciato a essere sempre più riconoscibile e noto tra gli appassionati di letteratura. Lessico semplice, esaltazione delle piccole cose, amore nei confronti degli altri e di sé stessi: non è difficile capire perché sia così condivisa e amata, al punto da sembrare un prodotto dell’Instapoetry, o meglio dello strano incontro tra TikTok e poesia. Ma The Orange è stata scritta nel 1989 ed è stata originariamente pubblicata nella raccolta Collected Poems: solo di recente è stata riscoperta su TikTok, diventando virale proprio grazie alla sua universalità. Faber, dunque, per sfruttare il momentum dell’autrice, ha deciso di riproporla in un compendio di poesie selezionate da Cope stessa.

C’è molto di più, però. The Orange non è solo una celebrazione dell’ordinarietà, non è solo il racconto della riscoperta di amore e vita. O meglio, è tutte queste cose, ma su un piano puramente didascalico. The Orange è, più che altro, una poesia sulla depressione. L’autrice non cita mai esplicitamente la malattia – anche questo è il bello dell’arte poetica, il suo essere ellittica – ma codifica tutta una serie di comportamenti che corrispondono a un principio di guarigione.
Ci si fa incantare e divertire da un elemento quotidiano come le arance, la cui dimensione e il cui gusto riescono a donare uno stato di serenità a Cope. Il sapore dell’arancia, tuttavia, non viene mai menzionato: non sappiamo se sia dolce o amara, succosa o asprigna. La metà del frutto che condivide con Robert e Dave è, però, dolcissima nella sua essenza. Ce la immaginiamo così, gustata spicchio per spicchio, in un processo in cui la banalità di un’azione fa scorrere la serotonina tra le vene dell’autrice.
Come scrive Rachel Aviv nel suo saggio Stranieri a noi stessi, il paziente depresso durante la guarigione amplia l’orizzonte della sua curiosità e l’oggetto di interesse, qualsiasi esso sia, diventa improvvisamente più coinvolgente. Di fatto, la sensazione nella lirica è che non ci sia più quel disallineamento tra la mente e i ritmi della vita contemporanea tipico della depressione, ma, con le parole di Aviv: «Il cervello, all’improvviso, è un posto divertente e fresco in cui stare».
In tal senso, nei versi seguenti sono presenti altre spie che suggeriscono un processo di guarigione dallo stato depressivo:
«This is peace and contentment. It’s new. / The rest of the day was quite easy. / I did all the jobs on my list /And enjoyed them and had some time over».
Non si parla tanto di felicità, quanto di serenità e stabilità: un bilanciamento che risulta nuovo e sconosciuto, e che in gran parte è dovuto all’apprezzamento per la concretezza della realtà e per l’ordinarietà che ci circonda. La cosa più importante è trovare spazi non solo fisici, ma anche temporali in cui ci si ri-conosce e ci si rimescola come persone: ci si percepisce come interi e materici, non evanescenti e disconnessi dalla realtà. Cope apprezza la sua routine perché è ciò che le permette di essere altro dal sé e da ciò che la definisce dal punto di vista lavorativo: è proprio in quella temporalità che le avanza che riesce a dare voce alla sua arte.
La scrittura, di fatto, non coincide con la depressione proprio perché nella depressione si è disallineati e approssimativi. Un’arancia non è un’arancia: è contingenza insapore necessaria per sopravvivere. Ma questa contingenza nella costruzione dell’identità della persona non più depressa diviene fondamentale e viscerale, è ciò a cui ci si aggrappa: un’arancia non è ancora un’arancia, è il motivo per cui si vive.
L’ultimo verso «I love you. I’m glad I exist» è intraducibile: a chi dichiara il suo amore l’io lirico? Ai suoi amici con cui condivide il frutto? O ama il frutto stesso, perché le permette di sentirsi un tutt’uno con ciò che la circonda? Ama la vita per come è, e perché sta ricominciando a percepirne flusso e spinta primigenea? Ama sé stesso, forse? L’io lirico di Cope ama tutte queste cose, e ama sperimentarle e accoglierle in un momento così insignificante e quotidiano.
The Orange è solo una delle liriche che sono state selezionate per questo libricino che riassume la carriera poetica di Wendy Cope, che si dichiara un po’ frastornata dal successo che ha avuto grazie a TikTok. Tuttavia, la letteratura – dice – può coesistere con gli spazi digitali, che però per costituzione richiedono rapidità e superficialità. L’autrice si interroga sulla qualità che la celerità del mezzo digitale produce: accessibile non è lo stesso di banale, ciò che piace al grande pubblico può essere stratificato, è quel confine tra significato letterale e significato allegorico che viene ben incarnato dalla parola poetica.
All’Instapoetry (e alla sua evoluzione ibrida tra parola e voce narrante su TikTok) manca forse questo: non tanto l’assenza di una struttura metrica – per carità, il verso libero è stato di gran lunga sdoganato – quanto il fatto che con le parole non si dice più di quello che si scrive. La parola è isolata ma non comunica, rimane lo strumento di un aforisma blando che non ha nulla di magico ed arcano, ma solo l’immediatezza della condivisione. La poesia del tempo dei social contiene tutto quello che deve dire nella sua mediocrità: non c’è nulla da cogliere o da immaginare, non è ellittica come quella di Cope.
Il linguaggio essenziale dell’autrice, infatti, non coincide con un testo non stratificato. Tra le sue preferite nella raccolta, Flowers è una lirica su un mazzo di fiori che non c’è: una mancanza quotidiana che sarebbe stata motivo di rabbia in una coppia diventa il pretesto per rivelare l’incomunicabilità e l’essere impacciati e indecifrabili nelle nostre relazioni. E i fiori, che per circostanze esterne e per l’eterno rimuginare e interrogarsi circa i desideri altrui non ci sono fisicamente, diventano immortali: «They have lasted all this while».
Wendy Cope compone testi ragionati nella loro semplicità, in cui il linguaggio colloquiale si alterna a sperimentazione e ironia. Versi liberi, ma anche omaggi alla poesia giapponese, con un Haiku e il Tanka By the river: come rivela l’autrice stessa, la metrica è il “corsetto” più immediato per poter incapsulare le immagini e farle diventare poesia. La semplicità del lessico è spesso impiegata per far saltare gli schemi del linguaggio e la connessione tra significato e significante: le poesie fanno sorridere, sono ironiche e sagaci. Ma l’ironia, come dice Cope, è figlia della disperazione, è il modo in cui il dolore si maschera e si smaschera, in un continuo gioco di esaltazione del quotidiano per sopperire agli orrori dello stesso.
Inversioni di parole, di versi, giochi lessicali e metaletterari, elenchi puntati: Wendy Cope ri-crea un grande compendio di umanità ed empatia, che è in grado di dare spazio a una voce che proviene dal baratro, si guarda indietro e gli sorride senza uscirne completamente. Ben venga allora Tik Tok: la poesia è democratica e senza confini, abita le strade e ora anche gli spazi digitali.