Prosegue la collaborazione di Limina con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, una serie di approfondimenti sui percorsi editoriali di alcuni degli autori di punta della casa editrice. Nomi e firme che ricorrono e che delineano un percorso importante, quello al centro della mostra digitale Il cam(m)ino dell’editore – Storie di Arnoldo Mondadori a Meina, visitabile sul sito della Fondazione. Il nuovo capitolo del viaggio nell’archivio Mondadori è dedicato a Giuseppe Ungaretti, e al suo inedito carteggio con la direzione della casa editrice tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta.
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A volte ci si dirige verso certi luoghi sconosciuti con l’ignota sicurezza di tornare a casa. Ne escono rafforzate le riluttanze e le resistenze iniziali, come accertamenti che il terreno non nasconda l’inganno apparente di sabbie mobili, ma una volta superato il valico, la casa ritrovata diventa poi difficile da lasciare.
Di date sarebbe bene ricordarne poche: tenerne a mente due o tre, quelle che non scandiscono lo scorrere del tempo ma gli incontri fatali, secondo una cronologia intima e dall’andamento mai orizzontale. Degli appuntamenti cruciali di un grande autore che ha attraversato e testimoniato tutto il Novecento e di un importante editore che è stato e rimane uno dei capisaldi dell’editoria italiana a partire dal 1907 diventa difficile tenere memoria. Per questo, ripercorrendo il cammino che ha condotto Giuseppe Ungaretti verso Arnoldo, e poi ancora di più verso suo figlio Alberto Mondadori, sarà opportuno, per parsimonia di numeri e memoria, ricordare soltanto i punti estremi dell’inizio e della fine, cigli che contengono un rapporto sempre genuino e per questo incandescente.
È il 7 giugno 1942 quando Giuseppe Ungaretti, già poeta di grande fama dopo la pubblicazione delle raccolte Allegria dei naufragi e Sentimento del Tempo, riceve un telegramma da Arnoldo Mondadori, nonché fondatore e Presidente della casa editrice omonima: parole scarne e dirette che invitano il poeta nella nuova casa, «per consacrare tua intera opera poetica nella collezione Specchio».
Si diceva inizialmente di ritrosie e resistenze, e così furono, complice il rinomato caratteraccio di Ungaretti, capace di grandissima sensibilità e tenerezza quanto di borbottii logoranti e petulanze iraconde, per cui le trattative di convincimento si protrassero per più di un mese, fino a quando «dopo un’altra discussione di due ore, Ungaretti ha firmato e posso dire non a malincuore, sebbene sia partito discutendo ogni articolo del contratto e ogni periodo delle lettere, ché nulla gli garbava», riporta Ettore Della Giovanna, l’allora segretario della casa editrice.
Dalle prime lettera di risposta, Ungaretti ci abitua a schiettezze e mancati celamenti, mostrandosi nella sua intemperanza d’animo, nudo e scoperchiato alle emozioni e ai sentimenti, come ci hanno lungamente insegnato i suoi versi: «Anima, non saprò mai calmarti?»[1] . E così, in una grafia minuta, a tratti illeggibile, che si inerpica sul foglio bianco tendendo prima a destra e poi a sinistra, come preda dei venti, scopriamo il controllo, quasi maniacale, che il poeta vuole avere sui suoi libri: non si fida di nessuno, neppure dell’intero armamentario di correttori di bozze, al punto che, così rivela, «anche una virgola fuori posto mi metterebbe in uno stato di vera disperazione».
La corrispondenza tra Ungaretti e i Mondadori si fa sempre più confidenziale e profonda, passando attraverso la distruzione della guerra che rase al suolo la pensabilità di futuri scenari, ma rinnovò la speranza nella Parola Onesta, quella che è propria solo dell’innocenza e della letteratura. Ed è sotto il segno della Poesia, in quanto parola sacra fuori dal tempo, che si suggella il legame tra Ungaretti e Alberto Mondadori, anche lui poeta, oltre che editore. Un rapporto segno di un’epoca, oggi così distante e irreplicabile per cui possiamo provarne solo costanti malinconie, in cui il lavoro, l’esercizio intellettuale e spirituale erano avvinghiati alla politica, all’amore e all’amicizia, in una prospettiva di resistenza collettiva possibile. «Oh, mio caro Ungaretti, è gran tempo che gli sforzi del pensiero, della bontà, del rispetto, dell’arte naufragano, e non giova il richiamo del passato più recente alla maggioranza che non vuol capire», confessa Alberto Mondadori in una lettera di poco successiva alla liberazione. «Eppure bisogna resistere, e opporsi, e creare fra chi si intende quel legame intellettuale e morale che nessuna vicenda contingente può spezzare: e per resistere ognuno di noi ha bisogno dell’altro, come fratello. […] Faccio a te […] gli auguri […] di giusto compenso dal mondo che troppo raramente ama e capisce i grandi poeti».
È da questo momento in poi che emerge con prepotenza il perenne compromesso che caratterizza la vita di ogni artista dai natali non agiati, così come è stata quella di Ungaretti: da una parte la creazione disinteressata, che necessita di silenzi, di tempi che sanno andare al ritmo del pensiero – «Solo ho amica la notte.\ Sempre potrò trascorrere con essa \ D’attimo in attimo, non ore vane; \ Ma tempo cui il mio palpito trasmetto \ Come m’aggrada, senza mai distrarmene.»[2] – , e dall’altra il bisogno primario di una pancia piena per produrre versi. Nella congiunzione di queste due necessità diventa cruciale il ruolo dell’editore, che si fa duplice, come quello di un padre: attento, premuroso, paziente, che sappia alternare e dosare le dolcezze del miele alle amare severità, e soprattutto in grado di assicurare al poeta quella stabilità economica necessaria per continuare la sua Opera, quell’ «insopprimibile bisogno dello Spirito» che abbisogna di «uno stato di assoluta mancanza di preoccupazioni economiche». In questo riconoscimento che fa dell’editore un padre e nella reciproca fedeltà che lega autore e editore, Ungaretti e Alberto Mondadori attraversano la crisi post bellica consolidando sempre di più un legame fatto di burrasche, intemperanze e grandi affetti, in cui, vista l’età anagrafica che vuole Ungaretti più anziano di Alberto Mondadori di ventisei anni, la relazione spesso si rovescia, portando il poeta a prendersi cura e preoccuparsi del suo amico: «Tu sai l’affetto che ho per te. Da molti e molti anni. Un affetto di fratello maggiore, un vivo affetto paterno, e sono angosciato per il tuo silenzio che non so spiegarmi». Anche sul piano professionale le posizioni spesso si capovolgono e innumerevoli sono le lettere in cui il poeta propone alla casa editrice nuove possibilità editoriali, tra autori e autrici emergenti o stranieri. «La sola cosa che vorrei fare oggi è di occuparmi settimanalmente delle novità letterarie nostre, e, se molto importanti, straniere. C’è oggi nel campo della lettura una tale confusione che ritengo mio dovere cercare un’occasione per intervenire direttamente nel dibattito». In questo Ungaretti incarna il ruolo dello scrittore tout court come venne inteso anni dopo da Pier Vittorio Tondelli secondo il quale l’impegno morale dello scrittore non stava soltanto nello scrivere ma altrettanto nello scoprire, proporre e pubblicare: «Per me, fare letteratura non significa solo scrivere, ma anche pubblicare. Significa lavorare sui testi di questi ragazzi, chiedere di riscriverli, correggerli e aiutarli nella pubblicazione. In un certo senso, è un lavoro collettivo che mi ripaga dell’estrema solitudine in cui sono costretto quando a scrivere sono io»[3]. Pertanto all’indomani della pubblicazione del primo libro di Alberto Mondadori, Quasi una vicenda (Mondadori, 1957), il giudizio del poeta è molto atteso dal novello scrittore, e Ungaretti si rivela sorpreso «per la straordinaria forza di poesia» contenuta nel volume, al punto da considerarlo uno dei pochi casi di vera poesia di quegli anni.
La corrispondenza diventa territorio di confronto culturale e dichiarazione affettiva, in cui i due intellettuali si abbandonano, alla ricerca di un riconoscimento consolatorio reciproco, al lamento per un’evoluzione sociale e storica che allontana l’uomo dall’uomo e che fa del mestiere di vita uno tra i più sofferti: «Anch’io, come te, non riesco più a credere alla possibilità di un dialogo sereno, di un accordo di voci leali e cordiali. Assisto allibito al rivelarsi della vera essenza degli uomini, a questo loro fondamentale amore per l’odio, a questa loro tendenza a risolvere vertenze, precari con decisioni più ancora precarie. E mi sento annichilito e impotente al cospetto di questa bestialità, di questa paurosa maniera d’affrontarsi, a dispetto di ogni elementare senso di civiltà, a dispetto delle leggi stesse della natura (seppure in perfetta coerenza con le leggi storiche e il loro succedersi e divenire)», si confida Alberto Mondadori al poeta in una lettera di metà anni Cinquanta. Allora la speranza per un avvenire migliore risiede nella poesia, «nel segno del bello, del buono, del vero», in una tensione che, nonostante le difficoltà economiche e private come la morte del figlio avvenuta nel 1939 e quella della moglie del 1958, non porta mai Ungaretti al largo, lontano dalla parola poetica, anzi lo avvicina vertiginosamente, presentandosi a lui come unico strumento possibile per tentare un’espressione assoluta alla Vita di un uomo. «Quando un giorno ti lascia \ Pensi all’altro che spunta. \ è sempre pieno di promesse il nascere \ sebbene sia straziante \ e l’esperienza di ogni giorno insegni \ che nel legarsi, sciogliersi o durare \ non sono i giorni se non vago fumo»[4]. Così anche il farsi delle opere diventa materia emotiva e affettiva condivisa tra il poeta e il suo editore: germogliano raccolte come Il dolore, La Terra Promessa, inizialmente intitolata Penultima stagione, Il Taccuino del Vecchio, Il deserto e dopo, e le traduzioni dal francese, Racine, Mallarmé, Gongora, e quelle dall’inglese, Blake, Shakespeare, fino ad arrivare alla costituzione del volume dell’opera omnia ungarettiana, Vita d’un uomo, iniziata agli arbori del vincolo tra Ungaretti e i Mondadori nel 1942.
E allora sempre prima i versi, sempre prima la parola: così la stanchezza degli anni Sessanta per un uomo che si avvicina al tramonto è lenita dall’entusiasmo dei suoi occhi sempre accesi, che trasformano lo scampolo nell’ultima grande stagione di produzione poetica: «Ho settantotto anni e sono un po’ stanco e nessuno mi vuole lasciare tranquillo, e vorrei prima di salutare questo mondo, portare a termine il grosso libro della poesia, e quello dei saggi», scrive in una lettera ad Alberto del ’65, in riferimento ai due volumi Vita d’un uomo. Tutte le poesie (1969)e Vita d’un uomo. Saggi e interventi (1974).
Cinque anni dopo, è la notte tra l’1 e il 2 giugno 1970, Giuseppe Ungaretti se ne va con il favore della notte che gli era amica, salutato dalle parole di Alberto Mondadori, ancora una ed ultima volta amico fedele, padre orgoglioso e amante del verso:
«Sconfortato piango nella desolazione et nella solitudine nelle quali lascia la dipartita del grande poeta et dell’uomo civilissimo di Giuseppe Ungaretti che mi onorò della sua amicizia del suo affetto del suo bene da cui trassi nutrimento morale speranza nel migliorare dell’umanità certezza di vita stop il ricordo di lui conosciuto nel millenovecentotrentaquattro sarà parte mai immemore della mia coscienza et mi guiderà sino al giorno in cui lo raggiungerò per abbracciarlo con il medesimo animo che ci sollecitava all’abbandonarci alla reciproca fiducia alla fede nella poesia alla dignità umana, rinnovando lo incanto a ogni nuovo incontro».
[1] Caino, 1928
[2] Segreto del poeta da Il Dolore
[3] Un momento della scrittura in L’Abbandono, Pier Vittorio Tondelli
[4] Poesia riportata in una lettera di Ungaretti ad Alberto Mondadori datata il 6 marzo 1960.
Illustrazione di copertina: Giorgia Merlin