La scrittrice e poetessa austriaca Ilse Aichinger, morta nel 2016 e sopravvissuta alle persecuzioni naziste in quanto ebrea per parte di madre, una volta scrisse che «forse l’ovvio deve prima diventare incomprensibile per poter restare ovvio». Durante la Seconda Guerra Mondiale, Aichinger perse la nonna e gli zii materni, morti nel campo di sterminio di Malyi Trostenec, vicino Minsk. Come per tutti gli scrittori di origine ebraica sopravvissuti alla Shoah, anche lei uscì segnata da quell’esperienza, al punto che la sua scrittura si fece sempre più scarna e impenetrabile a riprova dell’incapacità della lingua di comunicare il trauma e di stabilire legami con il presente. È nell’indicibile e nel silenzio, dunque, che secondo Aichinger si manifestano gli effetti delle violenze subite.
A questa poetica del silenzio sembra rifarsi Antje Rávik Strubel, autrice e traduttrice tedesca originaria di Potsdam, che nel discorso di conferimento del Deutscher Buchpreis nel 2021 per Donna blu (Voland, traduzione di Cristina Vezzaro, 2023) ha citato la già menzionata frase dell’autrice austriaca. Questo romanzo si confronta con l’indicibile della violenza sessuale subita dalla protagonista Adina Schejbal, che dopo aver attraversato «tre confini fra quattro paesi europei» ritroviamo in un appartamento di una palazzina a Helsinki, «un paese che non conosce, un paese del Nord, dove gli alberi sono diversi e la gente parla una lingua diversa, dove l’acqua ha un gusto diverso e l’orizzonte non ha colore». Nata e cresciuta ad Harrachov, nei pressi dei Monti dei Giganti, e figlia della Rivoluzione di Velluto che portò alla dissoluzione della Cecoslovacchia, Adina deve ora fare i conti con la difficoltà di raccontare il dolore subito in una realtà che sembra non prestarle ascolto. A correre in suo aiuto è una misteriosa figura, la donna blu, che le appare come in sogno per aiutarla a esprimere l’indicibile.
Donna blu è dedicato a Silvia Bovenschen, critica letteraria femminista morta nel 2017 e autrice del saggio Die imaginierte Weiblichkeit (La femminilità immaginata), con il quale affermò che le voci femminili vengono idealizzate o demonizzate da un canone letterario dominato da logiche patriarcali che preclude loro ogni possibilità di esprimersi autonomamente. Questa dedica, dunque, mostra l’intento di Rávik Strubel: rappresentare la difficoltà per le donne di esprimersi in un mondo ancora governato dalla logica patriarcale. Questa difficoltà viene esplicitata in uno degli incontri fra la protagonista e la donna blu, in cui sembra evidente come Adina sia al tempo stesso proiezione della stessa autrice, quasi a creare quello che in una conferenza di Göttingen ha definito un “Io semibiografico” utile a riflettere sulla scrittura del trauma. Rávik Strubel, infatti, fa riferimento a se stessa e all’impossibilità per le autrici della ex Germania Est di esprimersi in un contesto dominato dai tedeschi occidentali. L’autrice non solo parla di se stessa, in particolare di «un romanzo sul dirottamento di un Tupolev polacco da Danzica all’aeroporto di Berlino-Tempelhof» (riferimento a Tupolev 134, edito in italiano nel 2011 da Edizioni Nikita), ma cita implicitamente anche Christa Wolf, «l’unica autrice dell’ex Repubblica Democratica Tedesca con una voce in Germania dopo la caduta del Muro [che] era stata resa oggetto di scandalo da parte della stampa nazionale», chiaro riferimento alle accuse che nel 1993 il settimanale «Der Spiegel» mosse all’autrice di Landsberg an der Warthe in merito alla sua collaborazione con la Stasi.
Non è un caso che venga menzionata Christa Wolf. Nei romanzi Cassandra e Medea, Wolf si è difatti confrontata conla difficoltà delle donne di affermare la propria voce in una società dominata da logiche di potere patriarcali. In questi due romanzi l’autrice tematizza lo Schmerz der Subjektwerdung, “il dolore del farsi soggetto”, ovvero il raggiungimento dell’autodeterminazione attraverso il confronto con i punti ciechi del passato e il dolore di una violenza volutamente rimossa. Ciò si rifrange anche in Donna blu, che non solo deve molto alle già citate Aichinger e Bovenschen, ma anche e soprattutto a Christa Wolf: a livello di prosa, la scrittura risulta scarna, in quanto raffigura l’incomunicabilità di Adina, che deve tradurre i suoi pensieri dal cieco a lingue come l’inglese, il russo o il tedesco che non padroneggia completamente e che di conseguenza le rendono difficile la comunicazione del trauma; a livello narratologico, invece, il tempo narrato alterna continuamente passato a presente, realizzando quella che la critica di «Die Zeit» Miryam Schellbach ha definito Poetik der Diskretion, “poetica della discrezione”, simile al summenzionato dolore del farsi soggetto, in cui all’avvicinarsi del trauma Adina ritorna coi pensieri al presente, simboleggiando da un lato la difficoltà di confrontarsi con la sofferenza e dall’altro la necessità di farlo con una narrazione stratificata che rende il trauma altro da sé, allontanandolo da Adina, che così riconquista il proprio io.
Nel fuggire dal proprio trauma e al contempo nel confronto con esso, Adina scinde la sua personalità, per cercare una propria voce per esprimere l’indicibile. Nella Germania dell’Est, ad esempio, diventa Nina, mentre a Helsinki è Sala, e nelle chat online che frequenta si fa chiamare Mohicano, ispirandosi a L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper. Il motivo per cui si fa chiamare in quest’ultimo modo ci dà una chiave di lettura fondamentale per capire le vicende di Adina:
«“Il Mohicano è l’ultimo perché non ha una storia” disse infine, come assorta nei pensieri. “Non è grave. Si pensa sempre che la storia sia qualcosa di vecchio, che si ha alle spalle, nel passato. Ma io ho capito che non è vero. È molto più complicato.” Fece una pausa. E quando sembrava che non avrebbe detto altro, aggiunse: “Mia madre e mia nonna sono il mio passato. Eppure sono anche davanti a me. Mi precedono. Ma chi procede dietro di me non è anche ciò che mi attende? Il mio futuro? Non è strano? Il mio futuro è chi racconta di me”».
Facendosi chiamare Mohicano, la protagonista esprime non tanto la privazione del suo passato, quanto l’incapacità di comunicarlo agli altri. Questa impossibilità è dovuta proprio al cambio di lingua che ha vissuto sulla sua pelle. Se, per esempio, comunicare con Leonides, un europarlamentare estone che frequenta a Helsinki, in inglese rende il tutto più oscuro da comprendere, «le parole tedesche», invece, «non le ubbidivano. Anziché dire quello che voleva, diceva quel poco che riusciva a dire, che sembrava però seguire più la logica della lingua straniera che i suoi pensieri». Paradossalmente, però, l’incomunicabilità e l’intraducibilità portano Adina a creare un nuovo modo di esprimersi attraverso la creazione di una logica che parte dall’errore e dall’uso improprio della lingua:
«Ciò che contava, quando si parlava, non era fare sempre tutto per bene. Ciò che contava era sentirsi a proprio agio, servirsi della lingua, che aveva una logica diversa dalla sua. In una lingua corretta […] una come lei non esisteva proprio».
È proprio nell’uso improprio delle lingue assimilate che Adina riesce a dare forma alle cicatrici del suo corpo e a esprimere l’insondabile. Gli errori commessi nell’uso di alcune parole o tempi verbali, ma anche l’impossibilità di esprimere certi concetti nel passaggio da una lingua all’altra le permettono di far emergere la sofferenza attraverso le contraddizioni a cui è costretta nell’uso improprio di una lingua. Le contraddizioni a cui fa riferimento anche la donna blu permettono di esprimere «errori nei ricordi» che «rendono credibile ciò che si ricorda». È in questo modo che Adina riesce ad avvicinarsi al suo dolore, ed è attraverso i punti oscuri della comunicazione e del passaggio da una lingua all’altra che Rávik Strubel riesce a rappresentare il trauma con la scrittura, qui incarnata dalla donna blu, in quanto, come recita Ilse Aichinger, che la donna blu cita esplicitamente, «nell’insondabile ci avviciniamo l’una all’altra»: nell’impossibilità linguistica e nei silenzi creati da un parlare e uno scrivere scarno e a volte impreciso, Rávik Strubel riesce a far esistere Adina, la quale si avvicina al proprio io riuscendo ad esprimere la sua sofferenza.
Antje Rávik Strubel riesce a raccontare una storia di abuso e violenza assimilando le lezioni di voci autorevoli della letteratura in lingua tedesca come Ilse Aichinger e Christa Wolf. Come ha dichiarato la giuria del Deutscher Buchpreis, Donna blu racconta «con impeto esistenziale e precisione poetica» la difficoltà nel rappresentare il trauma e le violenze subite, e dimostra come la scrittura riesca, attraverso l’incomunicabilità, la contraddizione e il silenzio, a esprimere l’insondabile, permettendo a chi racconta la propria storia di esistere in un dolore indicibile.
In copertina, Antje Rávik Strubel (credit daserste.de)