Amore è un grande contenitore. Una parola simbolo, vaga – e dunque bella –, multiforme, declinabile in così tante accezioni da poter addirittura perdere l’importanza del suo significato. L’amore, innato, eppure appreso, genera un ossimoro da cui non si viene a capo. Harold Brodkey, una delle voci più autorevoli della letteratura americana del Novecento – purtroppo poco letto e studiato in Italia – parte proprio da questo sentimento così estremo e sconosciuto per lanciarsi nel mondo della letteratura. Ha solo ventotto anni quando i suoi primi racconti, tutti apparsi sul New Yorker, danno vita alla raccolta Primo amore e altri affanni, recentemente ripubblicato da Fandango Libri. Brodkey, poi definito da Harold Bloom il Proust d’America, scrive di ciò che conosce, dei tumulti interiori che affliggono i ragazzini, gli adolescenti e poi i giovani, quasi nel tentativo di ricostruire quel percorso emozionale che porta al diventare adulti – madre o padre di famiglia con doveri e preoccupazioni materiali. La finzione non ha ragione di esistere nei suoi scritti, se non nel dare nomi e attribuire professioni a personaggi che sono archetipi delle età che vivono.
«Mamma, i miei insegnanti, mia sorella, le ragazze a scuola, gli altri ragazzi, tutti volevano che io li amassi. Ma io volevo che mi amassero prima loro. Nessuno lo faceva. […] Vedevo centinaia di vigliaccherie negli occhi della gente che conoscevo, migliaia di difetti, milioni di debolezze. Se dovevo amare per primo, avrei amato soltanto la perfezione.»
Questa riflessione quasi filosofica, che conduce all’impossibilità di amare in cui matura il personaggio protagonista – voce narrante – di Stato di grazia, racconto che apre la raccolta, è gemma preziosa incastonata in una narrazione che si edifica sull’elogio della semplicità quotidiana della vita di provincia. Il personaggio senza nome che a tredici anni legge Orgoglio e pregiudizio e a tempo perso fa il babysitter di un bambino che da lui vorrebbe essere amato, mostra come la complessità dei sentimenti e della corrispondenza si celi fra le pieghe della vita, ripetitiva, gretta, a tratti meschina a cui l’individuo è spesso sottoposto. Non servono madeleine per rievocare la dolcezza dei tempi andati, è sufficiente l’eterno presente dell’eco dei passi che hanno reso l’uomo quello che è: si tratta di un rimbombo persistente e assordante che aguzza la lucidità in cui affogare o dai cui far riemergere i rimpianti.
Brodkey è autore dall’ingannevole semplicità, ed è questa ingannevolezza ad avergli garantito sin da subito non solo l’attenzione della critica, ma anche e soprattutto quella del pubblico: l’ordinario, condivisibile da qualunque generazione appartenente alla classe media dell’America di provincia, grazie alla scrittura vibrante e fluida, si trasforma in epopea garbata, in favola imperlata di fascino e di poesia. Il lieto fine, sempre dietro l’angolo, sempre parzialmente raggiunto nasconde l’amarezza di una meschinità a cui il mediocre – personaggio brodkeyano per antonomasia – soccombe. La ricerca dell’amore e dell’annessa felicità che esso dovrebbe garantire, scoperchia un vaso di Pandora dei fallimenti, prossimi o già conclamati. I legami figliali, amicali, amorosi hanno vita breve, devono essere vissuti al massimo finché possibile, prima che cedano il posto all’insoddisfazione, alla rabbia, alla depressione che incancreniscono il cuore. Nel bellissimo Educazione sentimentale, forse grazie all’inesperienza dei collegiali Elgin e Caroline, l’amore viene vissuto in tutte le sue stagioni con stupore e autenticità, e lo stesso fallimento viene serenamente contemplato come una strada possibile per crescere e maturare. Il loro candore negli approcci, prima platonici e poi fisici, non intaccato da una bramosia violenta, ma da una possessione infantile che parte dall’intelletto, crea terreno fertile per una sperimentazione che amplia le vedute, che sfugge a quelle regole canoniche che teorizza solo per poi rifiutarle: il matrimonio – fondamento della vita per bene – è una possibilità che viene scartata da Caroline per evitare di autoinfliggersi, troppo presto, un’infelicità già programmata. Come lei non farà Laura Andrews, protagonista degli ultimi tre racconti che costituiscono quasi una piccola saga sulla vita di coppia di due trentenni sull’orlo dell’infelicità. Essere sposati, avere un figlio e programmarne un altro dopo un periodo di ristrettezze preventivate, è un copione noto a una buona fetta di donne americane, un’altra storia già scritta alla quale adattarsi con il sorriso sulle labbra, la messa in piega appena fatta e la cena pronta in tavola al rientro del coniuge. Laura vive la sua vita abitudinaria in una schizofrenia in bilico tra incanto e disincanto, tra amore incondizionato per il suo Martin e odio affilato verso la figlioletta Fede. Non sa essere né moglie né madre, crede solo nella favola – quella del matrimonio perfetto – che le hanno raccontato, nel tempo che cambierà le cose, nel sentimento di Martin che non si affievolirà. A lei è destinata una pace consolatoria in un pianto silenzioso con cui Brodkey lascia aperto il finale – come sempre fa –, descritto con quella minuziosa ambiguità che lascia spazio alla continuazione delle sottili riflessioni che intarsia abilmente in una trama lineare che non sembra essere incline a sbavature.
Primo amore e altri affanni è dunque l’opera di un autore che ha un ben chiaro progetto narrativo, sofisticato e a modo suo impegnato. Gioca a mettere in dubbio le certezze di chi si sente attivamente coinvolto nel racconto, dà sfoggio all’arte descrittiva per delineare gli scorci di un’America dai colori mutevoli, poetica nella sua bellezza antiestetica che nasconde le insidie del vivere dell’amare. Non a caso, nel racconto che ambienta in Europa, in Francia, il paesaggio sommariamente abbozzato consente, al contrario, al conflitto nascente fra i due americani che vivono uno svagato Grand Tour, di scoppiare mettendo apertamente in crisi il loro posticcio equilibrio interiore di borghesi soddisfatti. Brodkey, nella sua letteratura – affronta anche il romanzo e la non fiction – vanta il pregio di focalizzarsi sempre sull’estetica, formale e narrativa, dell’autenticità, ovunque essa si nasconda: nell’amore o nella morte.
Immagine di copertina: Coby Whitmore