Gli ultimi anni sono stati segnati dalla lenta ma grandiosa riscoperta di autrici del Novecento italiano, e il nome di Alba de Céspedes è, fra tutti, senza dubbio quello che più rappresenta un caso di studio in questo senso. Se non molti anni fa bisognava ricorrere alle biblioteche o ai mercatini per leggere le sue opere, oggi è esattamente l’opposto, e alla fine dello scorso anno Cliquot ha infine ripubblicato Prima e dopo, una delle pochissime opere che ancora mancavano.
Prima e dopo è un prodotto letterario che si cataloga difficilmente, a metà tra il racconto lungo e il romanzo breve. Aspetto formale che d’altronde si rispecchia nella storia editoriale del testo: nato per essere un racconto in mezzo ad altri racconti, fu visto dall’editore come un romanzo breve, e fu pubblicato nel 1955 non in raccolta ma in un suo volume, come una storia a sé.
La radice epifanica del testo è manifesta, dichiarata fin dalla copertina: è il titolo stesso, infatti, Prima e dopo, a richiamare un evento che cambia ogni cosa, dal quale non si può tornare indietro. In questo caso, il prima è di una donna libera (o presunta tale), la protagonista Irene, che prende voce nel testo e che racconta questo evento irrisolvibile.
Irene è una persona nata privilegiata che nella vita ha provato a liberarsi dalle tipiche catene che costringono le donne del dopoguerra; per cui lavora, ha rinunciato al matrimonio, possiede un amante e non partecipa alla vita mondana come ci si aspetta da lei. Abita da sola, guadagnandosi da vivere scrivendo e si occupa delle faccende con l’aiuto della domestica Erminia. E causa scatenante del suo prima e dopo è proprio la scelta da parte di Erminia di abbandonarla per tornare a lavorare dall’orribile nobildonna che serviva prima.
Una storia in apparenza banale, come riscontrabile anche altrove nella narrativa di de Céspedes, diventa un modo per indagare in profondità i personaggi e le loro scelte esistenziali, per tracciare un ritratto reale e realistico della società e per ottenere un fermo immagine della condizione femminile. Perché, se è pur vero che Irene è libera dalle costrizioni familiari che imprigionano Valeria di Quaderno proibito, che Irene è riuscita a ottenere letteralmente non solo una stanza tutta per sé bensì un’intera casa in cui scrivere per lavoro, il mondo non è necessariamente comprensivo nei confronti delle donne libere. Si pensi ai valori di cui è portatrice la figura di Erminia, voce del popolo, totalmente incredula di fronte a una padrona che si guadagna da vivere da sé: come quando, di fronte alla candida ammissione di Irene che dichiara il suo lavoro, lei si chiude in un «silenzio ostile», pensando di essere stata presa in giro. Il qui pro qui si chiarisce quando Erminia comprenderà che essere giornalista significa scrivere sui giornali, e non venderli: tra le righe ci leggiamo una incapacità di riuscire a concepire l’idea che non solo una donna lavori, ma che addirittura svolga una mansione che non sia puramente manuale e che presupponga un qualche tipo di intelligenza.
Se con le classi subalterne non va bene, la situazione non migliora nei ceti superiori della società: si legga di Maurizio, il ricco ex fidanzato di gioventù di Irene, che vede le donne come creature necessariamente devote all’ubbidienza e alla superficialità. E anche gli uomini più illuminati, come l’amante di Irene, Pietro, cadono facilmente nel tranello dei giudizi: si legge «mi rallegrai che Pietro fosse assente, che non avesse potuto giudicarmi un’isterica come ogni uomo, anche il più obiettivo, è sempre pronto a giudicare una donna che soffre».
Se, come si diceva, nel racconto/romanzo la questione femminile è meno manifesta rispetto ad altre opere dell’autrice, eppure chiarissima, è sicuramente molto evidente la stortura delle differenze sociali (affrontata in una maniera satirica che fa riconoscere la penna de La bambolona). Non si contano i richiami alla differenza di classe dei diversi personaggi, ed è d’altronde evidente Ma ricordiamo soprattutto che Irene è una donna matura, con grandissima consapevolezza politica, che si ritrova invischiata in una profondissima angoscia per l’abbandono della sua subalterna. Scrive Nadia Terranova nella prefazione che qui Alba de Céspedes «capovolge gli equilibri, è la domestica ad avere potere, emotivo e psicologico, sull’intellettuale, anche se è più giovane, anche se è ignorante», richiamando giustamente La porta di Magda Szabò come narrazione di una relazione a questa speculare. A seguito di questo abbandono la protagonista inizierà a mettere in discussione sé stessa e le sue scelte, la sua vera essenza: «Sono allo stesso punto in cui ero quando ci lasciammo con Maurizio e lui sposò quella ragazzina con la gonna a fiori e la borsa a tracolla. Forse, anche stavolta, è colpa mia. Non perché abbia fatto qualcosa: ma perché sono quella che sono».
La verità è che Irene, di tutto questo, prova profonda vergogna. Vivendo nella bolla della sua emancipazione, si sente assolutamente ridicola per lo smarrimento che prova per la perdita di Erminia. Il fatto che vengano meno le sue cure – non intese in senso solo domestico ma anche affettivo – la destabilizza totalmente, e il fatto che non dovrebbe provare questo sentimento per una domestica la fa sentire ancora peggio.
Compito del lettore sarà proprio allora proprio lasciarsi condurre dall’autrice a scoprire la verità esistenziale che governa i rapporti umani, incredibilmente complicati, molto lontani da essere ciò che sembrano.
«D’improvviso mi resi conto che c’erano voci, nella mia vita, più che presenze; e che, ormai, sarei rimasta priva di quel calore che sentiamo soltanto vivendo con qualcuno, e che paghiamo con il fastidio della convivenza.»
Immagine di copertina: Alba de Céspedes