Ci sono padri che feriscono, che deludono, che si impongono incutendo timore. Ma che la figura paterna sia ingombrante o assente, in ogni caso lascerà un segno. Il nuovo romanzo di Andrea Pomella, pubblicato per i tipi di Einaudi, s’intitola I colpevoli e guarda ad alcuni celebri rapporti padre-figlio: quello fra Franz Kafka e suo padre Hermann, Giacomo Leopardi e il conte Monaldo, Giulio Cesare e suo figlio Bruto (cui si aggiungono altre coppie nel podcast che in più puntate accompagna l’uscita del libro).
Comincia lì dove finiva L’uomo che trema, ponendosi quasi come un sequel rispetto al diario della depressione che l’autore aveva approntato, confidando alla pagina segni e sintomi, proprio quando questi si presentavano. Se ne L’uomo che trema emerge la frattura, il padre rinnegato perché colpevole di aver lasciato la famiglia per un’altra donna, di aver mentito e istigato a mentire, quando il protagonista era appena un bambino, I colpevoli si spinge oltre, per riflettere a partire da una vicenda intima e privata su temi capitali come colpa e perdono. Nell’epoca del rancore quest’ultimo è un antidoto che, a differenza di quanto si sarebbe portati a credere, ha poco a che fare con la bontà e molto col pensiero. Pomella arriva a farne una questione filosofica: «Al culmine di tutto c’è una domanda: che significa perdonare? In termini logici il perdono si dà quando si ristabilisce uno stato di grazia perdonando un’offesa. C’è l’offesa, la comprensione e la grazia. E se manca uno di questi tre elementi non c’è perdono. Il cuore del perdono quindi è la comprensione. Per comprensione non s’intende capire le ragioni dell’altro, e quindi giustificare, ma rendere chiari a se stessi le contingenze che hanno reso possibile che l’altro c’infliggesse l’offesa».
E ancora, l’autore trasfigura sentimenti e sensazioni: guarda al tradimento come destino morale che incombe sul protagonista, «come un marchio congenito, come una maledizione», mentre il senso di colpa diventa un virus, qualcosa che dilaga contagioso e da cui è impossibile trarsi in salvo.
Nel suo Addio fantasmi Nadia Terranova ha scritto: «Capii in quel momento cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo. Dicono che una madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà ciò che non chiediamo di avere». Una definizione che mi sembra attribuibile anche alla figura paterna: cos’è un padre se non un’immagine primordiale, un modello che incombe, un’origine da cui vogliamo scinderci e che tuttavia continua a condizionare, nostro malgrado? Sarà per questo che il padre rinnegato/ritrovato è uno dei motivi ricorrenti della vita e della letteratura.
«Nella pagine che sto per scrivere troverai cose che non hai mai saputo». È questo l’avvertimento da cui origina il romanzo di Pomella – una lunga lettera in seconda persona – in cui Pomella si racconta contemporaneamente al padre e al lettore. A sanare la frattura, «dopo trentasette anni di silenzi, di reciproca indifferenza, di rancore», non un cambiamento d’idea tardivo dell’allora bambino, oggi adulto e padre a sua volta, quanto il desiderio infantile, espresso da suo figlio, di conoscere il nonno paterno. Il protagonista ne accoglie la richiesta e comincia così una frequentazione piena di lacune e di non detti, in cui convergono un’intera vita da recuperare e la sensazione di alcuna prossimità. Come accade coi grandi libri, sono innumerevoli gli spunti che il racconto offre, perché la dialettica fra padri e figli non si stanca di animarci e di sorprenderci con una gamma di sentimenti ambivalenti e contraddittori. Ripenso a una lettura di quando ero ragazza: Padri e figli, in cui Ivan Turgenev sembra a primo acchito raccontare lo scontro generazionale fra i primi e i secondi nella Russia di metà Ottocento ma in filigrana offre una lezione sul relativismo di ogni posizione.
Così Andrea Pomella chiude con un colpo da maestro che sovverte la trama, s’interroga sulle colpe dei padri che ricadono sui figli, ma anche su quanto finiamo con l’essere tutti colpevoli, in un modo o nell’altro.