Siamo a Londra, in Mile End Road, nel novembre del 1884. Frederick Treves, medico del vicino ospedale, entra in uno dei piccoli negozi che si affacciano sulla strada. L’ambiente è vuoto, solo qualche raro ortaggio resiste sugli scaffali di quello che era stato un fruttivendolo. Un uomo gli va incontro e lo conduce al di là della tenda rossa che sta sul fondo della stanza. L’immagine che gli si presenta alla vista è terrificante. Accoccolato a terra se ne sta un essere informe, con una enorme protuberanza sul cranio. Soltanto il suo braccio sinistro non presenta alterazioni. Quell’essere che fatica parlare e che si nasconde alla vista, il fenomeno da baraccone che permette buoni guadagni al suo impresario, è John (o Joseph) Merrick e ha ventun anni. Ha così inizio la relazione tra Treves e Merrick, di cui ora possiamo leggere il resoconto del medico, proposto nei Microgrammi di Adelphi con il titolo L’uomo elefante nella traduzione di Matteo Codignola.
L’uomo elefante conduce da quando è nato un’esistenza a dir poco grama. Al seguito del suo impresario, continua a girare da una città all’altra, attirando l’attenzione delle folle e della polizia che regolarmente impedisce lo svolgimento dello spettacolo. Al di fuori dei momenti in cui viene esposto all’occhio dei visitatori, Merrick trascorre il tempo cercando di nascondersi, perché solo l’isolamento lo rende tranquillo. Quando Treves lo visita, dopo averlo con cautela introdotto nell’ospedale, nota, con rammarico, che l’uomo è «intelligentissimo, straordinariamente sensibile e – purtroppo – molto incline alla fantasie, specie di carattere sentimentale». Se non fosse stato consapevole della sua condizione, pensa Treves, la vita di Merrick sarebbe stata meno angosciante. Al momento del congedo, Treves gli lascia il proprio biglietto da visita, che si sarebbe rivelato, due anni più tardi, la sua salvezza. Perché, dopo un allucinante viaggio di ritorno prima in traghetto e poi in treno da Bruxelles a Londra, l’uomo elefante, che si muove a fatica e che, nonostante la cappa nera in cui si avvolge, attira costantemente l’attenzione inorridita degli altri viaggiatori, riesce a sfuggire a chissà quale sorte mostrando ai poliziotti proprio l’indirizzo del medico. Ha inizio così la seconda e ultima parte della sua breve vita. Merrick ha a disposizione un piccolo appartamento di proprietà dell’ospedale di Treves, riceve visite, soprattutto femminili, tra cui quella della principessa del Galles; va addirittura a teatro dove assiste estatico allo spettacolo. In quei mesi Treves ha di fronte a sé un uomo felice. Con una stanza che si riempie di omaggi e cartoline. Con la sensazione di essere finalmente come gli altri. E forse proprio il tentativo di sentirsi definitivamente normale lo porta alla morte. Merrick non poteva dormire sdraiato, ma seduto con le spalle appoggiate al cuscino. La notte in cui morì cercò forse proprio l’impossibile posizione supina. Ma la testa gli era caduta all’indietro, slogandogli il collo.
Come dimostrò l’eco prodotta dalla versione cinematografica della storia di Merrick, The elephant man di David Lynch (1980), i cosiddetti freaks, quelli che nel passato venivano tout court definiti mostri, esercitano su ciascuno di noi un indiscusso fascino. Come mai? Foucault negli Anormali disse che siamo nell’età della meraviglia e della curiosità, l’età in cui vengono sistematicamente messi in discussione gli ideali di ordine e di razionalità. I mostri possiedono proprio questa facoltà: mettono in crisi le nostre certezze, ma nello stesso tempo permettono all’uomo di riconoscersi e di acquisire consapevolezza di sé. Il mostro rientra nella categoria del grottesco, cioè suscita orrore e nello stesso tempo tempo fa ridere. È quello che capita a Merrick quando scende dal treno alla stazione di Londra: la folla si accalca davanti a lui, fugge inorridita e lo cerca, lo strattona e ne teme il contatto, urla di paura e ride per i suoi movimenti sghembi. Merrick, con la sua ridicola caricatura di essere umano, sfocia, come ha scritto Marina Mascherini, nel carnevalesco, nel rovesciamento dei valori e delle aspettative, nel «mondo a capinculo», secondo la definizione di Piero Camporesi.
A fine Ottocento il freak ha acquisito lo status di oggetto che letteralmente è da mostrare. La sua esibizione diventa uno spettacolo popolare, che ottiene risonanza e talvolta addirittura credito, grazie all’abilità di alcuni impresari di circhi itineranti quali Phineas Taylor Barnum. Il mostro, spiega sempre Mascherini, esce così dai gabinetti di curiosa dei nobili, della borghesia e delle Accademie. Cessa di essere materia per anatomisti preoccupati di mantenerne integra la fisionomia per poterla studiare ed esporre nelle vetrine dei musei anatomo-patologici. La teratologia – la scienza che studia i mostri – si declina in spettacolo per le masse, che vogliono sperimentare il senso del perturbante, quel sentimento fondato sul timore che, come spiegò Freud in Das Unheimliche (1919), deriva dal non familiare, dal trovarsi a tu per tu con ciò che non percepiamo come consueto. Meraviglia mista ad orrore che, almeno fino alla metà dello scorso secolo, nasceva anche dall’ignoranza delle cause. Il mostro era una deviazione rispetto al normale ordine delle cose e qualsiasi spiegazione circa la sua origine – dai pensieri della madre al momento del concepimento, fino alle più assurde azioni contro-natura – poteva essere accettata.
Nel 1932 il regista Tod Browning realizza Freaks, uno dei film più controversi della storia del cinema, soggetto a tagli, censure e a lungo escluso dalla proiezione e, soprattutto oggi quando la sensibilità di fronte alla disabilità è completamente diversa, decisamente scioccante. Sfilano davanti allo spettatore i cosiddetti fenomeni da baraccone: l’uomo bruco, ovvero il principe Randian, originario della Guyana, completamente privo di arti ma capace di accendersi una sigaretta; i microcefali con la testa a punta, i nani, un uomo busto che si muove velocissimo e agile sulle braccia, la ragazza senza braccia che beve tenendo il bicchiere con il piede destro, la donna barbuta, l’ermafrodita. Un’umanità dolente e derisa, come dimostrano le reazioni dei personaggi normali del circo. Ma anche un’umanità sofferente appunto perché intrisa di umanità. E così arriviamo all’aspetto più rilevante.
Il freak attrae perché viene presentato come una creatura ponte tra l’uomo e l’animale. L’abitudine a rileggere la storia naturale in termini para-evoluzionistici, dopo l’Origine della specie (1859), porta, tra XIX e XX secolo, a cercare ovunque anelli di congiunzione tra la nostra e le altre specie. Chi esce dai parametri dell’europeo bianco rischia di volta in volta di cadere nel ruolo: così è per gli africani, per gli ebrei, per i criminali e, appunto, per i freaks, i mostri.
Merrick, dice Treves, è trattato dall’impresario peggio di un cane. Il suo aspetto, la difficoltà a parlare che gli provoca la deformazione della bocca, lo pongono al livello più basso delle gerarchie dei viventi. Merrick, per dirla con Goffman, è segnato dallo stigma che lo relega tra i non umani. Anzi, quella traccia di umanità che conserva nel braccio e nella mano non toccati dalla deformazione ossea, sembra ulteriormente comprovare la distanza che lo separa dalla civiltà.
Siamo agli inizi di quel percorso di bestializzazione del diverso che condurrà al Lager. Ma se lì è la volontà umana a dirigere la metamorfosi teriomorfa, nella mostruosità di Merrick l’artefice è la natura, che ha creato un ibrido insostenibile allo sguardo. La metamorfosi è uno dei motivi di fondo della fiaba. Quella di Merrick, a tutti gli effetti, potrebbe sembrare proprio una fiaba. Agli stenti dei primi vent’anni subentra un periodo di serenità, in cui viene addirittura visitato da una principessa. Avvicinare la sua storia alla fiaba consente di rintracciare quanto ha poi anche evidenziato la letteratura ebraica della Shoah: l’uomo ridotto a bestia diventa più uomo di tutti. Questo è l’aspetto cruciale. Merrick, il diverso, il freak, è in realtà un uomo che ama conversare, leggere, provare emozioni, capire. Come Gregor Samsa, John Merrick nella sofferenza ha costruito la sua umanità, arrivando a porsi su un piano più alto rispetto ai suoi contemporanei. «Se il suo spirito avesse potuto assumere una forma» scrive Treves «si sarebbe presentato come un eroe senza macchia – il corpo asciutto, la fronte liscia, gli occhi accesi da un coraggio indomito».
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Copertina – Frame da Elephant Man (1980) di David Lynch