Quattro anni fa, in Colombia, è stato ritrovato morto nel suo appartamento di San Vicente del Caguán in circostanze misteriose l’attivista napoletano Mario Paciolla, operante in Colombia come osservatore ONU per la verifica del corretto svolgimento degli accordi di pace fra il governo e le milizie della FARC. La guerriglia in atto in diverse aree del paese non accenna a una tregua e sono numerosi gli interessi in campo che impediscono alle parti di intraprendere un percorso di pace. In un’intervista del 2020 rilasciata a Il Manifesto a cura di Gianpaolo Contestabile, l’attivista Manuel Rozental dell’organizzazione Pueblos en Camino ha definito Mario Paciolla «un abitante dell’oblio», colui che come gli abitanti della Colombia ha riconosciuto che per ottenere una vera pace bisogna «diventare territorio, autonomia, pace», cosa che sia lo Stato sia le milizie armate sia la criminalità organizzata del narcotraffico rifiutano di fare.
Due anni dopo la morte di Paciolla, la giornalista e reporter Valentina Barile compie un viaggio come inviata di Radio Bullets in Colombia per documentare la missione umanitaria dell’ONG friulana Oikos. Da qui nasce Restare vivi. Piccolo dizionario di resistenza, fra i primi titoli della neonata casa editrice Wudz Edizioni. Mentre la maggior parte dei reporter di guerra è impegnata a documentare la guerra in Ucraina, Barile giunge in Colombia assieme al collega e fotoreporter Stefano Stranges per «raccontare altre forme di resistenza umana che molto spesso non arrivano alle soglie dei nostri telegiornali». Dopotutto, come scrisse Paul Lynch in Il canto del profeta, la fine del mondo è sempre un evento locale che bussa alla tua porta in forma di eco distante di eventi che diventano subito folklore, che assumono le fattezze di un avvertimento lontano raccontato brevemente sui giornali. Barile sceglie, quindi, di accogliere l’eco distante della Colombia e di documentare la lotta silenziosa e sempre osteggiata dei perviventes, movimenti di attivismo per i diritti civili e la tutela delle popolazioni indigene che ogni giorno cercano di sopravvivere alla morte e agli ostacoli che la guerra civile frappone loro nel raggiungimento dell’autonomia e della libertà.
Il sottotitolo del reportage è «Piccolo dizionario di resistenza» e il motivo è spiegato bene nella prefazione firmata da Aleida Guevara March, figlia di Che Guevara e Aleida March, che si chiede se i temi trattati riusciranno a catturare l’attenzione degli Europei «che hanno perso l’interesse per tutto ciò che ruota al di fuori del proprio comfort»:
«Il dolore di questi popoli oppressi nei secoli dal colonizzatore europeo e, più tardi, da una pseudo repubblica imposta dagli Stati Uniti d’America, non è diminuito col tempo, al contrario, ogni giorno, con misure differenti, ma non meno letali, cercano di farli sparire e quasi ci riescono, e ancora una volta si scontrano con la dignità e la forza di questi uomini e donne che potrebbero essere dei validi esempi di vita di tutti noi».
Sempre in riferimento agli europei, inoltre, Guevara March sostiene in questa premessa al libro che «conoscere come vivono i popoli nativi del mio continente, di sicuro, gli permetterà non solo di dare più valore a ciò che già hanno, ma anche di rispettare meglio la vita». Considerate queste parole, Valentina Barile vuole dunque universalizzare la situazione colombiana per portarci a comprendere come il rispetto per i propri diritti e per la libertà dei popoli sia sempre una conquista, mai qualcosa dato per scontato. Conoscere quanto accade in Colombia è fondamentale per farci capire come queste conquiste appartengano a tutti indistintamente dal paese di provenienza. Per farci conoscere la realtà colombiana, l’autrice non solo usa un linguaggio diretto e alla portata di tutti, ma riporta anche le testimonianze di chi ancora combatte le ingiustizie alternandole a spiegazioni sulla situazione politica e sociale della Colombia, sulle sue tradizioni locali e commenti su canzoni e poesie. Personalità come Harold Wilson Montùfar Andrade, Carmen Betzabé Popayán, Alcibiades Trujillo Ortega e Mario Paciolla sono coloro le cui azioni si possono ritrovare alla voce “restare vivi”, il cui contributo, seppur osteggiato dalle autorità, continua ancora a dare la speranza di un rinnovamento per coloro che sono costretti ad abitare l’oblio e a rinunciare alla propria terra e libertà:
« ‘Restare vivi’ è quindi una lotta politica di resistenza, sopravvivenza, persistenza, è lo stile di vita di chi ha scelto per volontà propria – ma quasi forzatamente per ragioni esistenziali – di combattere contro ogni forma di ingiustizia compiuta verso se stessi e gli altri, anche quando gli altri sono intere collettività. È una qualità che appartiene a chi ancora oggi, nei luoghi più vulnerabili del pianeta, è costretto a lottare per i propri diritti […]».
Questa «lotta politica di resistenza» passa in primo luogo attraverso il linguaggio. L’autrice costruisce, allora, un dizionario sulla resistenza basato su un lessico che mette a contatto lo spagnolo, le lingue indigene, l’italiano e talvolta anche il latino. Pervivencia, che in spagnolo significa «sopravvivere nonostante il tempo e le circostanze», qui assume il significato di «ri-esistenza», di ritorno alla vita dopo le difficoltà e nonostante l’esperienza della violenza e della morte. Un’altra espressione fondamentale è buen vivir, strettamente legata a quella in lingua quechua allin kawsay e a quella in lingua aymara sumaq qamaña che assume il significato di «armonia spazio-temporale dell’esistenza» fra esseri umani e mondo naturale. Termine importante è anche resguardo, risalente ai tempi di Simón Bolívar e alla restituzione delle terre ai nativi, oggi legato all’espressione quechua llakta kamana, che riguarda un modo di governare proteggendo il territorio rivendicando il diritto alla terra e all’esistenza. Infine, Barile riserva spazio per quella che è forse la parola più significativa di questo lessico: la speranza, in spagnolo esperar, termine che Martín Caparrós in Ñamerica considera «la migliore confusione del castigliano», in quanto vuol dire sia “sperare” che “aspettare”, e di conseguenza assume il significato di «fermarsi in un luogo finché non arrivi una persona o accada qualcosa».
Raccontare questo lessico della resistenza serve all’autrice non solo a rimarcare un legame fra il vecchio colonialismo europeo, il capitalismo e la guerriglia civile, ma anche a stabilire un contatto fra l’Europa e la Colombia, fra chi non conosce questa realtà, ma chi ne è responsabile indirettamente, e chi questa realtà la vive rischiando ogni giorno la morte. Questo lessico, dunque, universalizza quanto racconta l’autrice, e mette in risalto una correlazione molto forte fra il territorio, la memoria e la lotta per il potere. Lo stato colombiano, e così le milizie FARC e la criminalità organizzata del narcotraffico, hanno bisogno di distruggere le comunità locali e di privarle della loro terra per mandare avanti i propri interessi. Come dice Montùfar Andrade, «lo Stato in Colombia ti perseguita perché non devi parlare, non devi fare, perché non devi rivendicare nulla, né devi lottare» e di conseguenza non devi ricordare. Il discorso, allora, si sposta sulla questione della memoria:
«Memoria e storia costruiscono però il nostro presente, e proprio la conoscenza storica ci consente una cittadinanza consapevole; lo abbiamo potuto osservare, per quel che ci riguarda più da vicino, nelle associazioni partigiane, dei reduci, dei prigionieri militari italiani che hanno contribuito a fondare la democrazia nel nostro paese e si sono impegnate nel trasferimento della memoria storica attraverso i presidi fisici presenti sul territorio nazionale, come le case della memoria, i centri di documentazione, gli archivi diaristici, ossia quelle fonti materiali che attestano ciò che è accaduto e assolvono al compito formativo e divulgativo da cui deriva l’apprendimento, vale a dire quella conoscenza del passato che è la nostra colonna vertebrale».
Ed è per questo che torna utile ricordare l’espropriazione delle terre, le morti di bambini indigeni e contadini che lottano per difendere la propria terra dai narcotrafficanti, la scomparsa di figli mai più tornati a casa o la fuga di attivisti che «devono cercare nuovi rifugi per non farsi ammazzare»: perché soltanto nell’esercizio della memoria si può sperare di cambiare le cose. La libertà e l’autonomia si possono raggiungere soltanto ricordandosi, come Mario Paciolla, di essere «territorio» e che vivere significa prendersi cura degli altri, rispettarne i diritti e le tradizioni.
In una delle sue poesie Paciolla scriveva: «Non avrò le ali di un gabbiano, forse,/ma volerò lo stesso». Questo potrebbe essere il giusto modo di concludere questo discorso su Restare vivi. La resistenza, spesso, non è fatta da chi ha in mano il potere, ma da piccoli uomini e donne, depositari di tradizioni e culture, di sensibilità e visioni del mondo diverse che, anche se non hanno le ali, possono volare lo stesso attraverso la parola e la memoria, le sole attraverso cui conquistare la libertà e difendere la terra, primo vero patrimonio dell’umanità.
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