«Per me la gente non fa quello che può, fa quello che vuole. Per me la mia famiglia non ha fatto quanto avrebbe potuto fare in una simile situazione. No. Per me hanno preferito fingersi tonti, voltarsi dall’altra parte.»
L’esordio di Belén López Peiró, Perché tornavi ogni estate (La nuova frontiera, 2022, traduzione di Amaranta Sbardella) non è solo un libro: partendo dall’esperienza personale arriva a essere atto politico, manifesto. Le voci che si alternano tra le pagine, litigandosi uno spazio per dire la propria verità, contribuiscono a creare un rumore di fondo dal quale si staglia – sempre più forte man mano che ci si avvicina alla fine – quella della vittima. Deve urlare per farsi sentire, in un mondo nel quale il beneficio del dubbio è concesso anche di fronte all’evidenza, e arriva a farlo.
López Peiró sceglie di raccontare l’esperienza che ha segnato la sua intera vita, l’abuso sessuale subito dallo zio, marito della sorella di sua madre, senza patetismi, affidandone la narrazione a tutti gli attori coinvolti, indiscriminatamente. L’effetto iniziale è disorientante: i parenti si affastellano uno dietro l’altro, mostrandole vicinanza o screditandola senza pietà, ma nessuno di loro ha un volto o un nome. Intorno alla protagonista si raccoglie tutta la famiglia, che parla e le parla, rivolgendosi direttamente a lei, apostrofandola.
La prima sensazione leggendo Perché tornavi ogni estate è quella di partecipare a qualcosa di cui non si dovrebbe essere testimoni, qualcosa che non sarebbe mai dovuto uscire dal recinto protetto della famiglia: i primi personaggi a prendere parola lo lasciano intendere e anzi instillano subito il dubbio che chi ha denunciato stia in realtà mentendo.
«E allora perché tornavi ogni estate? Ti piace soffrire? Perché non rimanevi a casa tua?»: e perché, soprattutto, ci hai fatto questo? Eri invidiosa? Hai sempre invidiato Florencia e, sì, ti sgridavamo, ma era per il tuo bene: nelle voci dei personaggi risuonano questi persistenti interrogativi, purtroppo familiari nelle narrazioni di chi si trova vicino a vittime di violenze e a interrogarsi sulle loro scelte e ragioni.
Ma quello che è successo è un fatto, e non sorge mai il dubbio che in realtà non sia successo, che sia stato tutto inventato di sana pianta. Si alimenta così una spirale di frustrazione costruita perfettamente da López Peiró: non c’è alcun bisogno di spiegare come si senta in quanto vittima di un abuso sessuale, è chiaro fin dall’inizio. Persino chi dice di crederle non capisce come sia potuta arrivare così tardi a denunciare, e stanno attenti a non incolparla di nulla, ma il risultato è un rimprovero meschino mascherato da consiglio.
A spezzare il fluire dei monologhi dei familiari, López Peiró ha inserito una serie di documenti che riportano le dichiarazioni fatte alla polizia dalle stesse persone che popolano il libro. Qui il tono è formale, nonostante le opinioni e le cose dette siano di fatto molto simili agli sfoghi che López Peiró riporta, e smorzano inevitabilmente il tono, contribuendo a un senso di straniamento che si fa sempre più persistente.
In questo senso la voce dell’autrice, inserita fin dall’inizio in questo turbinio di punti di vista, acquista nel corso del libro una fisionomia da moderatrice, come se il suo compito a questo punto sia quello di mediare, ricomporre il puzzle, mettere in prospettiva. Sono le pagine più complesse del libro, quelle che portano con sé una riflessione che sublima l’esperienza personale e la porta a essere un’esperienza politica, che riguarda tutti. Il microcosmo della famiglia si apre fino a comprendere la società intera: il loro fallimento nel preservare e proteggere l’infanzia della protagonista della vicenda è il fallimento di tutti.
«Ogni volta che credo di averci messo un punto, di aver detto tutto quello che dovevo dire, in qualche modo rivive. Rivive in ogni voce che somiglia alla sua, in ogni foto della mia infanzia, nei ricordi con la mia famiglia, nel paese in cui ho mosso i miei primi passi. […] E ogni volta che lo rivivo provo la stessa identica sensazione: non finirà mai. E lotto contro me stessa per liberarmi di ogni immagine, per cercare di porre un freno a quel dolore che torna ogni mattina e mi distrugge.»
Belén López Peiró continua dicendo che non è sufficiente: dare la colpa a lui per quello che le ha fatto, ai suoi genitori per essere stati assenti, alla sua pediatra per non aver capito a cosa fosse dovuta la sua lacerazione alla vagina non è sufficiente. Nonostante le venga detto a più riprese di voltare pagina, che non ci sia più motivo di soffrire, il libro è testimone proprio del contrario. Scrivere Perché tornavi ogni estate è il tentativo ultimo di esorcizzare il proprio trauma, portarlo alla luce e imparare a conviverci, ma non c’è modo di chiudere le porte del passato.
In questo senso, non c’è una risoluzione. Non si impara nulla con Perché tornavi ogni estate. Non c’è lieto fine, e non c’è nemmeno una fine propriamente detta. È tutto in divenire e il libro non conclude nulla: ci saranno altre domande dirette a cui rispondere in modo sincero, altre accuse da ignorare e quel dolore sordo con il quale scendere a patti. E magari non è proprio vero che scrivere rende liberi, ma sicuramente ti porta fuori dalla gabbia.
In copertina Belén López Peiró dall’edizione spagnola di Perché tornavi ogni estate, Las Afueras