«Perché fin da ragazzo seppi sempre che avrei trovato una Silvia
e pianto e fatto a botte con lei»
(Fuoco grande, Cesare Pavese e Bianca Garufi)
Si sono amati, si sono criticati, hanno cercato di capirsi creando un libro insieme. Per cinque anni Cesare Pavese e Bianca Garufi si sono scritti in maniera intermittente e incessante. Con la penna in mano cercavano «il vero tra noi». Poco importava che fossero distanti, uno a Roma l’altra a Milano, o che si vedessero ogni giorno negli uffici di Einaudi. Erano una bellissima coppia discorde, come recita il titolo del carteggio curato da Mariarosa Masoero (Olschki Editore) che raccoglie le lettere scambiate tra lo scrittore piemontese, con il suo vivere «storto», e la studiosa romana, perseguitata da quel «panico dell’anima» che si attribuiva.
«Spero sempre di sposarti». Nel compilare l’elenco dei suoi scandali privati Cesare Pavese, in una delle lettere a Bianca, mette per primo questo. Sta redigendo un ironico sommario delle sue vergogne perché, ne è convinto, solo scoprendo le proprie indecenze si può pensare di arrivare, in qualche modo, all’altro. «Penso ai denari, mi vergogno di mio cugino tabaccaio, mi sono molto masturbato un tempo. Spero sempre di sposarti». Queste, insieme ad altre, le sue sconcezze. È il 1945, quello con la Garufi sembra già un rapporto definito dalla letteratura più che dalla passione carnale, dallo scambio costante che porta a comporre un romanzo insieme, a distanza, un capitolo a testa, inviato per posta. Forse l’amplesso più lento e radicale. Lei presta la voce a Silvia, lui a Giovanni. Tentano l’esperimento letterario e amoroso di comprendersi nella stesura di qualcosa di reciproco. Fuoco grande, scritto nei primi mesi del 1946 e lasciato incompiuto, è un dialogo a due voci sul disastro di un’infanzia rovinata da un segreto e sulla scoperta di quel segreto taciuto. Inaugurando questo colloquio ne permetteranno infiniti altri. Alcuni diventeranno poesia (di lui: La terra e la morte, i Dialoghi con Leucò), racconti (di lei) e altri solo conversazioni a distanza sul proprio mancarsi.
Inizia Bianca, con la prima lettera in agosto. «Vorrei sapere qualcosa di te, se stai bene, se sei ancora così crudele». Risponde Cesare, confermando la sua crudeltà: «Lo sono ancora certamente, se crudeltà si può chiamare il normale contegno di chi rispetta le donne al punto di non volerne sapere di loro». Ma poi stempera l’orgoglio primordiale e le raccomanda con dolcezza di non perdere il senso di sé tra le tante occupazioni, insomma «di non mangiare il loto», alludendo ai Lotofagi dell’Odissea che, cibandosi dei frutti della pianta, delicatissimi e capaci di cancellare la memoria, avevano smarrito assieme al loro passato anche il significato del presente.
Pavese e Garufi amano entrambi moltissimo Roma perché è la città dove si può essere poeti per le strade. Hanno una sensibilità al limite del comunicabile ma sanno bene di avere voci diverse. Lui crede alla pagina scritta («Il mio significato nel mondo è di scrivere qualcosa»), non come lei, vincolata all’esigenza di non esaurirsi nelle frasi della carta. Cesare vive la scrittura come un compimento, Bianca come un rapimento lancinante ma temporaneo. In questa differenza sta il loro modo di amalgamarsi senza del tutto comprendersi («B., io sono profondamente convinto che ci siamo cercati perché diversi»). Come scrive la curatrice del carteggio, Mariarosa Masoero, sono «una coppia discorde nel praticare la poesia come nel concepire l’amore».
Dopo l’idillio degli inizi, le lettere alternano lamentele minute, improvvisi cambi di tono, le tipiche brutalità di chi si ama ma non sa fino a quanto. Ci hanno provato ma si sono, a vicenda, delusi. Lui la chiama con i nomi delle altre, la confonde, la rende forse archetipo del suo male, la tradisce mescolandola con Tina, Fernanda e tutte. «È stato triste per me che tu ieri sera ti sia sbagliato» scrive la Garufi prostrata. E lui che questo errore se lo appunta ne Il Mestiere di vivere, il suo canovaccio esistenziale, in un epigramma del 7 dicembre 1945, «è già due volte in questi giorni che metti accanto T, F, B. C’è qui un riflesso del ritorno mitico. Avevi 37 anni e tutte le condizioni favorevoli. Tu cerchi la sconfitta». Mentre lei già inizia a sconfessare quel suo «tengo conto di te in maniera inevitabile», Pavese opera il suo consueto sabotaggio «perché sai io non sono mai stato abituato a un contatto come il nostro». Bianca, la sua «pietra che rotola» come la chiama con un misto di affetto e derisione, è una delle donne che Pavese finirà «per bruciare», perdendola come ne ha perse altre, per orgoglio, ma soprattutto per tornare alle rassicuranti cicatrici che l’hanno condannato fino all’ultimo. In una lettera bellissima, lo scrittore tormentato dal lavoro e definito dal sorriso delle colline torinesi, riflette sulla monogamia che vuol dire «scelta di un’altra persona, materialità e realtà di questa persona, primo passo a rispettarla». Un abbandonarsi allo scorrere del fiume che lui raccomandava a se stesso prima che alla Garufi. Il coraggio di mettersi in pericolo per inseguire una corrispondenza anche minima. Quella comprensione che cerchiamo tutti, di essere raggiunti da qualcuno, anche solo una volta, nel luogo interno, fragilissimo, dove ci nascondiamo. Nel punto esatto dove abbiamo riposto, come confessa nelle pagine de Il Mestiere di vivere, «il dimenticato, e non ancora ricordato, motivo del nostro dolore».
C’è il nome della scrittrice e psicanalista, celato nella sua traduzione greca (Leucò significa bianco), nel titolo di quei Dialoghi con Leucò che sono stati tantissimo per Pavese, quasi il risarcimento prima della fine dalla scrittura, e della vita, nel 1950. Proprio i dialoghetti mitici, via via che sono pronti, arrivano nella cassetta della posta di Bianca Garufi. A volte, i due accludono alle missive anche i capitoli da correggere del loro romanzo, si scambiano commenti feroci, consigli, legittimi sfoghi sentimentali ed economici, lei sempre in travagli finanziari, lui lì a spendersi per procurarle lavori, traduzioni, pubblicazioni. Ci sono gli «addio e guarisci, scema» e poi i «mi dispiace della tua solitudine. Se fosse una cosa così salutare, non avresti quel tono velenoso parlandone». «Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente». Passano gli anni e la Garufi continua ad annoverare «false partenze» (diventerà oltre che scrittrice anche un’affermata psicanalista) mentre Pavese le rivolge continue prediche: «Chi cambia la passione ogni tre mesi (parlo di lavoro) s’annoia. È come il libertino di fronte al coniugato. Dei due chi si annoia di più?». Si scrivono ancora all’inizio del 1950, prima del Premio Strega quando ancora l’agosto del suicidio dello scrittore sembra lontano, a tratti inverosimile.
«La mia anima gemella è Pavese. Glielo voglio dire. In fondo io e Pavese abbiamo lo stesso destino: benché per motivi diversi, tutti e due dobbiamo contentarci di “anime gemelle” nel senso più spirituale della parola. Porca miseria», ammette Bianca che prova grandi nostalgie per quelle chiacchierate con dentro il mito, la terra, la letteratura e quindi la vita. «È sempre stato amore storto, non assenza di amore», si scusa Pavese con tante frasi sempre un po’ rotte, dette sottovoce. Richieste di aiuto, speranze tutte da compiersi. E quanto queste fragili apologie assomigliano, per timore e timbro, al nostro di amore quando ci ha detto, senza quasi farsi sentire: «Spero non mi lascerai mai andare».
Illustrazione copertina a cura di Francesca Paola Turco (@frappati)