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Ombra e luce in Maleuforia di Deborah D’Addetta

La storia di Lemon nella Napoli degli anni Ottanta e Novanta

Deborah D’Addetta è un esordio atteso. Atteso perché, appunto, non giunge inaspettato. È uno di quei casi in cui – per il modo in cui funziona la litweb e per i meccanismi impliciti delle riviste letterarie – era solo questione di quando e non di se. Pugliese di origine e napoletana di adozione, scrive per diverse realtà, fra cui CriticaLetteraria, Mar dei Sargassi, Napoli Today. Fa parte del collettivo Spaghetti Writers e diversi suoi racconti sono apparsi negli anni sulle più svariate riviste online.

Maleuforia è uno di quei romanzi di formazione di cui si conosce già il finale perché l’esito è contenuto nell’incipit. Non solo la prima pagina, infatti, bensì le prime righe recitano così:

maleuforia

«Il bordello è pieno di persone, i volti ricamati d’ombra e luce di candele. Qualcuno sospira, qualcun altro canticchia una nenia. Intorno al mio letto ci sono delle sedie vuote, aspettano solo che. Il prete spretato bisbiglia orapronobis, scatti di polso agitano vento e ventaglio, un boa di piume sfarfalla, profumo denso dei mazzetti di fiori. Sta virando verso il rancido, come il sudore degli ospiti, come il mio corpo morto.»

Se a questo incipit rivelatore del finale aggiungiamo che la trama viene svelata nella bandella di sinistra – Raffaele De Palma è un ragazzo che si sente donna nella Napoli a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta –, capiamo sin da subito che il fulcro del libro non è negli eventi. Sebbene sia pervaso da tinte noir, Maleuforia non è un giallo o un thriller, nei quali è essenziale mantenere la tensione perché il climax corrisponde al finale, ossia al momento in cui il mistero si scioglie e il lettore vive insieme al protagonista l’atto epifanico della risoluzione. Da lettori, noi sappiamo già quello che accadrà. La tensione narrativa dunque è altrove, ossia nel gioco di forze fra gli opposti che scorre sotterraneo per tutto il libro e che risulta già annunciato nel titolo stesso.

“Maleuforia” è infatti un termine coniato appositamente per il romanzo. In una nota finale, attraverso una lettera che il/la protagonista scrive al Cavaliere, uno dei personaggi più rilevanti del libro, leggiamo che questo termine può indicare molte cose. In sintesi, è un concetto vicino alla malinconia, la quale può venir descritta come il sentimento di gioia che si prova nel portare alla mente ricordi tristi. La maleuforia però è qualcosa di diverso: è gioia e tristezza insieme. È euforia, appunto, ma sporcata di tristezza e pathos. Usando un’immagine appartenente a un contesto diverso, è un vestitino da prima comunione, quindi lindo e pinto, insozzato di fango. Ma è anche, si potrebbe dire, la gioia dell’autodistruzione, il piacere di soffrire, qualcosa di molto simile alla tedesca Schadenfreude ma rivolto verso se stessi. Maleuforia è un doppio, o meglio, una commistione – una fusione – di opposti, una sorta di incrinatura del principio di non contraddizione.

È una parola che descrive bene, dunque, l’atmosfera che avvolge l’intero romanzo. Nel libro, infatti, convivono diverse anime che, come nel bellissimo concetto di yin e yang, sono monadi unite a formare qualcosa di superiore; anche qui la tensione resta sempre manifesta, impossibilitata a raggiungere un momento di stasi ed equilibrio. Accade nel termine che dà il titolo al libro, s’è detto, ma anche – soprattutto – nella natura stessa dei personaggi dell’opera. Senza entrare nel terreno complesso della transessualità, è sufficiente dire che tutti i femminielli e le persone trans del libro hanno due nomi che rispecchiano la loro doppia identità: tutti sono nati uomini ma si sentono donne e quest’atto di liberazione di sé passa attraverso l’adozione di un nome d’arte che, nel libro, assume il ruolo di veronome, ossia identità interiore. Ma tutti, in un’epoca in cui tanti argomenti sono ancora tabù, vivono un’esistenza fra ombre e luci, nascosti in piena vista. Il loro essere uomini si mescola al loro essere donne in un tripudio di dolore, sofferenza, amore e gioia che sa molto di carnevalesco. È una continua festa della morte e della rinascita, una condizione accettata da tutti i personaggi come qualcosa di indissolubile.

La tensione vissuta dai personaggi si esprime anche a livello sociale nella seconda parte del libro, quando il ritmo accelera e la narrazione esce fra le strade di una Napoli che non viene mai nominata ma è ben presente. I femminielli e le prostitute vivono di notte, ufficialmente ripudiati da tutti ma poi, come ben accade anche oggi, amati di nascosto. L’Italia del 1982 viene ben descritta da D’Addetta come il luogo in cui di molte cose non si può parlare ma si sanno comunque. Ciò che accade nei bordelli, dietro agli scuri delle camere, o anche fra i vicoli dietro le chiese non è affare che debba essere comunicato eppure accade. L’amore e il sesso che vengono consumati sono qualcosa di reale, di tangibile, che lascia traccia sui muri o fra le strade sotto forma di liquidi corporei e preservativi, come a indicare che lì è successo qualcosa. Le cose succedono ma nessuno deve saperle, soprattutto le famiglie non devono essere coinvolte. È una forma di ipocrisia borghese che anche oggi, nel 2024, non si è sciolta.

La tensione sociale si riflette nel sesso, descritto in maniera esplicita dall’autrice. Molto spesso i ruoli sono confusi, la parte attiva può essere il cliente, che però la volta dopo – superata la vergogna – è parte passiva. Vergogna ed eccitazione sono entrambe presenti, entrambi contribuiscono all’atto sessuale e all’erotismo delle scene.

C’è poi un’altra forma di tensione, che è la più interessante da leggere e anche ciò che fornisce al romanzo una forte connotazione estetica. In Maleuforia infatti il topos letterario del sacro e del profano assume una forma peculiare, legata al tema della transessualità e della prostituzione. Molte scene avvengono in presenza di altari o edicole votive. Il protagonista stesso comincia a indagare la propria sessualità dopo aver visto una prostituta in abiti succinti rimettere in ordine un altare votivo dedicato alla madonna. Sante e puttane, amore e sesso, gioia e disperazione si mescolano di continuo creando un romanzo altamente emotivo ed evocativo, colorato e carnale ma anche spirituale, con momenti che sfiorano l’estasi mistica e culminano in un finale nel quale, finalmente, la tensione lascia spazio alla pace.

Questa tensione si percepisce anche nel linguaggio. In Maleuforia non c’è una suddivisione in capitoli, bensì ad alternarsi sono i punti di vista dei personaggi, in primis Lemon. Man mano che altri personaggi si aggiungono alla storia, il loro punto di vista si somma a quello del protagonista.
Nelle prime pagine, fino a circa un terzo della narrazione, ritroviamo uno stile pulito, intimo, che riflette il pudore di Raffaele e il suo tentativo di trovare uno spazio nel mondo. Qua e là però emerge la voce di Lemon, quella presenza femminile che vive dentro Raffaele, e lo fa come un geyser che spruzza via l’acqua ribollente compressa nel sottosuolo.

Man mano che la storia prosegue e Lemon strappa a morsi il guscio che la intrappola, il linguaggio diviene più feroce, energico e, soprattutto, esplicito. Nulla ci viene risparmiato, nemmeno le scene di sesso più violente. Le parole si fanno più audaci, le frasi più lunghe e articolate, il linguaggio volgare si mescola a quello aulico. Gli altri personaggi, invece, mantengono sin dall’inizio il proprio stile in quanto il loro percorso di scoperta di sé è già avvenuto.
Un’ultima annotazione riguarda la mescolanza di italiano e napoletano, che sono in alcuni passaggi rende la lettura un poco complicata. La pulizia del testo, tuttavia, rende il romanzo scorrevole e la lettura gradevole e coinvolgente.

Maleuforia è insomma un romanzo d’esordio notevole che fa del registro linguistico e della tensione continua la propria punta di diamante. Consigliato a un pubblico maturo, non cerca tuttavia lo scandalo a tutti i costi ma riflette con lucidità su una realtà storica e su un ambiente che molto spesso vengono visti con sospetto.

In copertina, Il femminiello di Giuseppe Bonito

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