Ognuno di noi, in giovinezza, sviluppa una specie di fedeltà per le cose che ci fanno stare bene. Una persona, una storia, una frase.
Dopo l’università ho lavorato per alcuni anni con Nanda Pivano. All’inizio le facevo una moltitudine di domande e ascoltarla mi faceva stare bene. «Non ti fidare di chi ha più di trent’anni», mi diceva sempre con un sorriso. Lo aveva sentito dire da Jerry Rubin, eroe della controcultura degli anni Sessanta che poi è diventato uno dei primi uomini d’affari a finanziare Apple.
Mi sono sempre chiesto cosa volesse dire questa frase. Con gli anni, la pratica e l’abitudine, anche io ho iniziato a voler far conoscere a Nanda la mia opinione. Credo in principio sia stato per suggerirle qualche parola, quando ritenevo ne stesse cercando una ed ero convinto di sapere a cosa stesse pensando. Temo poi di averla a volte interrotta per lanciare un mio commento.
Se parlavo io, Nanda invece ascoltava interessata. Non interveniva e rimaneva in attesa che fossi io a trovare le mie parole. Non era impaziente di condurre la nostra conversazione in direzione di una sua osservazione o del suo parere. Davvero voleva conoscere cosa pensavo, anche quando le mie parole vagavano e non riuscivo a spiegarmi con armonia o lasciavo una frase a metà. Succedeva spesso, ma Nanda dava valore alle mie ambiguità e incertezze.
Poi anche per me sono arrivati i trent’anni. Nanda se n’è andata e le mie incertezze sono rimaste, sono solo diventato un po’ più esperto a mascherarle. Si sarebbe ancora potuta fidare di me?
Quest’anno è il decimo anniversario della sua scomparsa e sono stato invitato un po’ in tutta Italia per ricordarla. Spesso ho citato la frase di Rubin, l’ho fatto anche poche settimane fa a Perugia per un incontro sulla Beat Generation. Molti tra il pubblico hanno sorriso. Tanti hanno detto che aveva ragione. Sapevano cosa vuol dire avere più di trent’anni?
L’altro “grande vecchio” festeggiato a Perugia era Lawrence Ferlinghetti, che quest’anno ha compiuto cento anni. Molte volte Nanda mi ha raccontato di quando è stata a trovarlo a San Francisco, di quando sono andati al Tosca Cafè in compagnia di un gruppo di amici tra cui Allen Ginsberg, Peter Orlovsky e suo fratello Julius, appena uscito dall’istituto mentale. Julius entrò – chissà se per sbaglio – nel bagno delle signore e il proprietario li cacciò perché era convinto che di loro non ci si potesse fidare. Il giorno dopo quell’uomo venne a sapere dalle pagine del San Francisco Chronicle che nel gruppo c’era anche Bob Dylan.
Erano gli anni in cui Dylan scriveva My Back Pages, «Ah, but I was so much older then, I’m younger than that now», cantava. «Eh, ma ero ben più vecchio ai tempi, sono molto più giovane ora». Aveva più o meno l’età che avevo io quando ho iniziato a lavorare con Nanda. Dylan l’ho solo visto in concerto, ma un paio di anni fa ho incontrato Ferlinghetti per un’intervista poi pubblicata sulla Lettura. L’ho raggiunto nella sua casa georgiana di North Beach, a dieci minuti a piedi dalla City Light Bookstore. La sua scrivania era cosparsa di disegni, fotografie e manoscritti. Anche lui mi parlò di quella serata e io conoscevo la storia al punto che quasi mi sembrava di esserci stato. Era la San Francisco che non aveva ancora conosciuto la Summer of Love e gli hippy, molto lontana da quella di Apple.
Allora Nanda e Ferlinghetti avevano quasi cinquant’anni, ma dai racconti mi sembrava che di loro ci si potesse ancora fidare. Di certo mi sono fidato quando li ho conosciuti vecchi nel corpo e giovani nella voglia di ascoltare e raccontare.
Forse anche Nanda e Ferlinghetti ci sono caduti. Forse anche loro in un periodo della vita hanno rischiato di distrarsi e hanno ritenuto di sapere cosa pensava chi stava loro di fronte. «Half-wracked prejudice leaped forth», prosegue Bob Dylan. «Pregiudizi mezzi infranti mi balzavano incontro». Sono però sicuro che i loro mezzi pregiudizi Nanda e Ferlinghetti li abbiano poi infranti del tutto, perché con la loro opera hanno dimostrato di essere fedeli alle cose che li hanno fatti stare bene in giovinezza. Lo hanno dimostrato anche nel modo di ascoltarmi, curiosi e in silenzio, come facevo anche io quando non avevo più di trent’anni.
Forse ci vuole tempo per imparare a dare valore alle cose che ci fanno stare bene. È facile distrarsi e non essere fedeli alla nostra natura. Ci vuole tempo per imparare a non avere più di trent’anni.