Nato a Firenze nel 1960, il comico e attore Giorgio Panariello cresce con i nonni a Montignoso, un comune a due passi dalla Versilia. Panariello lo racconta nelle prime pagine di un libro di memorie onesto e doloroso: Io sono mio fratello (Mondadori). La casa, che poi verrà venduta, è una “viareggina”, cioè un’abitazione a un piano solo, modesta (due stanze da letto, un salottino riscaldato da una stufa, una cucina, un bagno e un ripostiglio come dispensa). La mamma di Giorgio ha affidato il bambino ai nonni e poi si è dissolta nel nulla, come la donna misteriosa de L’avventura, il film di Michelangelo Antonioni che esce in quello stesso anno. La ragione della scomparsa non è chiara e non è noto dove la ragazza sia andata a finire.
Il bambino cresce con i nonni e gli zii. Pensa che gli zii siano fratelli e i nonni i suoi genitori, anche se non li chiama «babbo» e «mamma», ma con la formula abbreviativa dei dialettali “bà” e “mà”: «il bà e la mà». Sembra già di sentire il vernacolo versiliese dei suoi futuri personaggi. Nel 1968 il bambino scopre che la verità è un’altra. La madre infatti riappare. Torna a Montignoso, nella casa dove il figlio è cresciuto. Non è sola. C’è un altro bambino, con un occhio storto, Franco, il fratello minore di un anno che Giorgio non sapeva di avere. Panariello non detesta la madre, non le serba rancore. Dice che i nonni, persone di origini umilissime (il nonno Raffaele era analfabeta), lo hanno cresciuto con cura e amore, «l’unica cosa che conta», scrive Panariello, «e di cui non ho mai sentito la mancanza». Apparentemente non ha sofferto il trauma dell’abbandono e non gli è pesato il fatto di non aver mai saputo chi fosse suo padre. L’episodio centrale della sua vita, in realtà, è l’incontro a otto anni con il fratello. Lì c’è il miele del ricordo, ma pure l’innesco di un’ossessione e di un sentimento di colpa che durerà per tutta la vita. È in quel momento dell’infanzia che inizia a cumularsi «un debito».
Chi scrive ricorda nitidamente il volto e la figura di Franco Panariello. Anche a distanza di anni. Sono nato e cresciuto negli stessi luoghi dove hanno vissuto i due fratelli Panariello. Franco era un eroinomane. Tra Montignoso e Massa tutti sapevano chi fosse. Non solo perché era il fratello del comico Giorgio Panariello, che il sabato sera imitava Renato Zero su Rai Uno accanto a Tosca D’Aquino e Paolo Belli, ma perché Franco passava la maggior parte del suo tempo per strada, di fronte allo sguardo dei passanti. Viveva la città, con il caldo e con il freddo, trascinandosi avanti e indietro nel tratto d’asfalto tra piazza Garibaldi e una zona di bar e negozi detta «La Standa», per la presenza fino agli anni Novanta di un supermercato Standa, il più grande della città.
In quella stessa porzione urbana, le attività dei commercianti e di un benzinaio, il transito degli studenti in uscita dalle scuole superiori, gli ambulanti africani con gli accendini e i fazzolettini, i clienti del supermercato, gli automobilisti che manovravano in cerca di un parcheggio e gli anziani sotto la pensilina dell’autobus, convivevano ogni giorno con la presenza di un folto gruppo di litigiosi e irrequieti tossicodipendenti, tra i venti e i cinquant’anni di età. In mezzo a loro c’era anche Franco. Quell’occhio storto l’ho incrociato anch’io più volte, attraversando le strisce pedonali verso la impataccata piattaforma di travertino dove sorgeva la Standa.
Torniamo al libro. La mamma di Giorgio e Franco quel giorno del 1968 ricompare a Montignoso con uno scopo. Vuole chiedere ai nonni di prendersi cura anche del fratello minore. Il nonno non ne vuole sapere e Franco viene mandato in un collegio di suore nella vicina Marina di Massa, dopodiché viene spostato a Siena. Un senso di colpa comincia a mettere radici nel fratello maggiore:
«Potevo nascere un anno dopo di lui e mio fratello sarei stato io. E invece è toccato a lui sentirsi addosso un anno di meno, un anno di troppo. Se la mia vita si stava incanalando sui binari giusti, quella di Franco a un certo punto ha deragliato. Ha iniziato a dare segni di insofferenza alle regole restrittive del collegio, è diventato litigioso e i suoi scatti d’ira, sempre più frequenti, sfociavano in vera e propria violenza nei confronti delle suore e dei suoi compagni».
Compiuti i diciotto anni Franco torna a farsi vivo e stavolta riesce a stabilirsi in casa del fratello e dei nonni. Per Giorgio non è un’invasione, anzi, è una novità. Le cose però non funzionano: Franco non lavora e non studia e i contrasti con il nonno sono sempre più violenti: «Io cercavo di portare le ragioni dell’uno all’altro», scrive Giorgio, «perché se era vero che mio nonno non l’aveva mai amato né voluto, Franco non aveva mai fatto niente per cercare di comprendere un uomo anziano». Finisce che il nonno manda Franco a dormire in un box di lamiera in giardino, che diventerà la sua casa per anni.
La parabola del figliol prodigo è uno schema che ricorre nella storia universale e attraversa la vicenda concreta di molte famiglie. Anche qui siamo di fronte a un ritorno del figlio, con la differenza che l’epilogo e le circostanze di partenza sono diverse. Ci sono genitori che non lo sono per davvero, cioè nonni che fanno le veci dei genitori, e genitori che lo sarebbero ma risultano dispersi, infine un figlio/nipote allontanato, il quale peraltro, a differenza del figliol prodigo, non avrebbe nulla da farsi perdonare, anzi, la sua incolpevolezza è delle più radicali. Ecco che Panariello entra nel box e osserva il fratello minore:
«[…] nella casa di lamiera gelata d’inverno e bollente d’estate, raccoglieva le gambe al petto, si raggomitolava e il suo sguardo strabico si riempiva di lacrime. Piangeva in silenzio, con la testa nascosta tra le ginocchia, per pudore».
Tuttavia il dolore, il senso di colpa e la tenerezza, col passare degli anni si alternano alla rabbia, all’ossessione e perfino al terrore fisico nei confronti di Franco, che nel frattempo cresce, diventa sempre più indocile, si stordisce con alcol e psicofarmaci e a un certo punto comincia a consumare eroina. Anni Ottanta. Per un po’ di tempo le strade dei due s’intrecciano, come se prevalesse il bisogno di recuperare le epoche che non sono state trascorse insieme e sul vuoto di un rapporto mancato prendesse forma una comune amicizia tra adolescenti, fatta di canne e bevute insieme. Giorgio per un periodo frequenta la compagnia del fratello, quei ragazzi non gli dispiacciono. Una sera però gli viene offerta dell’eroina, sciolta in un cucchiaio e scaldata da una candela: si tira indietro. La sua vita, come per l’effetto di un rinculo, a quel punto prende velocità e s’infila in un’altra direzione (i primi lavori in radio, il microfono, l’emozione nel sapere che la propria voce arriva ovunque, la gavetta sui palchi toscani, l’acquisto di un’automobile usata, la collaborazione con il DJ Marco Bresciani in un curioso album di house music, l’incontro con Carlo Conti, il successo in TV con Succo d’arancia e Vernice fresca, tutto in progressione…), mentre Franco, invece, persiste nel proprio sbandamento, perché, non essendo stato amato, non trova la fiducia in se stesso necessaria a togliersi dalla strada. Eppure, nonostante l’ampia forbice, le rispettive traiettorie di vita non saranno mai del tutto divergenti, tutt’altro. Giorgio cerca più volte di coinvolgere il fratello e di trovargli un ruolo nella organizzazione dei suoi spettacoli. Non funziona.
La storia della vita del Panariello fortunato, raccontata in questo libro, è quella di un grande successo, di importanti risultati economici e artistici, dove il protagonista, però, è sempre artigliato dall’uncino di un antagonista, odiato e amato, il cui stato di bisogno e alterazione lo trasformano in un vero e proprio ricattatore e in un persecutore. Franco, per esempio, entra nei camerini dopo gli spettacoli, recrimina e chiede soldi al fratello, con le buone o con le cattive. «Non fare la merda», gli dice. «Non me ne vado finché non mi dai i soldi». Una volta si presenta con un gatto su una spalla. Al culmine del tormento, Giorgio confessa:
«Ogni sera prima di andare a letto, da dietro le tende della camera, senza farmi vedere, controllavo la strada e tutti gli angoli della piazzetta della chiesa, con l’angoscia di vedere la sagoma di mio fratello rischiarata dalla luce arancione dei lampioni».
Non faccio fatica a credere alle descrizioni di Giorgio Panariello, anzi, non solo il chiaroscuro e l’assenza di pietismo con il quale Franco è raccontato – la parola «stronzo» piantata al momento giusto – sono spia dell’onestà del narratore e della sua fedeltà ai fatti, ma tante sfumature e circostanze mi riportano con precisione alla mente la sagoma poco rasserenante di Franco, incrociata così spesso per strada, con una birra in mano e quell’occhio strabico che sembrava il segnale di una natura imprevedibile e caotica. Faceva paura. Giorgio Panariello, però, lo ha conosciuto e lo racconta anche nella sua dolcezza e nel suo segreto più umano: il diario dal quale Franco non si è mai separato, neanche quando dormiva in una casa abbandonata, riempiendolo con la biro di poesie e confidenze. Evidentemente l’eroina e la maledizione dell’abbandono lo avevano spossessato della sua natura, che era altro. Giorgio lo sa, ci crede, e nonostante tutto, infatti, lo aiuta, lo finanzia e lo accompagna lungo diversi tentativi di disintossicazione, che passano anche per l’implacabile selezione d’ingresso a San Patrignano, di fronte allo sguardo di uno scettico e impassibile Andrea Muccioli. In mezzo ci sono altri episodi, metadone, ospedali, il colloquio con Don Mazzi a Exodus, grandi schiarite, amarissime ricadute, ma il finale è che Franco, pur essendo riuscito a disintossicarsi e a imparare un mestiere, muore a cinquant’anni in una strana notte di Santo Stefano, dopo aver bevuto, scaricato tra i cespugli sul lungomare di Viareggio dai compagni con i quali aveva trascorso la serata. È morto di freddo. Un tribunale ha stabilito la condanna delle persone coinvolte per il reato di omissione di soccorso.
Come scrive Nicola Lagioia in La città dei vivi: «[…] si rischia sempre di riconoscere, nel sangue dello stesso sangue, lo scarto tra chi vince e chi perde la battaglia della vita». Fra i miei ricordi ho registrato anche le tante malignità locali sul conto del Panariello fortunato, la star di Rai Uno che in quanto ricca e famosa non si sarebbe occupata del fratello minore. Non è così. Questo libro racconta un tormento e una liberazione che non sapevamo.
Photo credits:
Le fotografie di Massa durante il lockdown sono di Davide Fulignani;
il ritratto di Giorgio Panariello è di Luca Pozzaglio