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Le fiabe gotiche di Neroconfetto. Intervista a Giulia Sara Miori



Neroconfetto è un libro dall’atmosfera plumbea, denso di presagi che fanno stare sull’attenti chi legge. Si tratta dell’esordio di Giulia Sara Mioriuscito nel 2021 per i tipi di Racconti Edizioni, nonostante l’autrice abbia alle spalle moltissime pubblicazioni su riviste letterarie quali NarrandomAltri AnimaliNazione Indiana e L’indiscreto.

Sono ventuno i racconti che compongono l’indice di Neroconfetto: titoli semplici e telegrafici, distillati di angoscia che anticipano la lettura dei capitoli. Eppure gli ingredienti del raccontare sono disparati: passiamo dal calarci nel punto di vista di personaggi morbosi e ossessivi all’incrociare i pensieri di persone grette e meschine, che riportano opinioni talmente sincere da essere brutali e impopolari. Il macabro e l’oscuro predominano nei racconti, eppure in alcuni casi inciampiamo in momenti di fragilità e tenerezza che chiariscono il motivo per cui, sul risvolto di copertina, troviamo la felice e calzante formula di “fiaba gotica” per descriverli.

Neroconfetto è un libro che riserva moltissime sorprese e noi di Limina abbiamo deciso di parlare con Giulia Sara Miori del suo esordio e delle caratteristiche del suo modo di scrivere.

Perdona la domanda forse scontata, ma fondamentale per inquadrare un esordio editoriale: qual è la storia del tuo rapporto con la scrittura? Cosa ha caratterizzato il tuo percorso, come lettrice e scrittrice?
Devo tutto a mia madre: quando ero molto piccola ha notato subito il mio interesse per le storie e ha pensato bene di incoraggiarmi e di insegnarmi a leggere e a scrivere anche se avevo solo quattro anni. Alle elementari, invece di lasciarmi uscire con le amiche, mi obbligava a sessioni estenuanti di lettura. Naturalmente io protestavo, ma lei non si lasciava convincere e anzi: mi dava da leggere testi complicatissimi che non capivo affatto (ricordo ancora che ho dovuto leggere il Candide di Voltaire a dieci anni). A volte, quando a scuola facevamo un errore di grammatica (per esempio un po’ con l’accento oppure qual è con l’apostrofo), la maestra per punizione ci chiedeva di scrivere trenta frasi come compito per casa. Io mi sedevo in cucina con mia madre e lei controllava che non scrivessi stupidaggini come La mamma è stanca o Il gatto miagola. Nulla la irritava come la banalità. Mi diceva: guardati intorno; non ci siamo solo io o il gatto o il tavolo o la mela. Allora io mi infuriavo, perché volevo tutto e subito (ho sempre avuto poca pazienza), ma alla fine mi inventavo qualcosa. Può sembrare un metodo educativo un po’ estremo, e oggi senz’altro lo sarebbe, eppure mi ha insegnato che, se si vuole scrivere, non basta la facilità della penna, ma è necessario avere qualcosa da raccontare. Per tornare alla domanda, dunque, avrei potuto rispondere le solite cose, e cioè che ho sempre saputo di voler diventare una scrittrice, che è sempre stato il mio sogno, eccetera eccetera, ma avrei mentito, e soprattutto mi sarei annoiata (come mia madre, detesto la banalità). Semplicemente mi sono sempre piaciute le storie e ho avuto la fortuna di riuscire a raccontarle per iscritto con una certa facilità.
Per quanto riguarda le letture, amo molto Dostoevskij, Tolstoj, Kafka, Némirovsky, Jackson, Poe, Morante, Moravia. Tra i contemporanei mi piacciono Carrère, Atwood, Ishiguro, Murakami e, tra gli italiani, il mio preferito è Lagioia.

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Illustrazione di Valallart

Neroconfetto è il tuo primo libro, anche come scrittrice potremmo dire che ti sei fatta le ossa grazie alle tante collaborazioni con riviste, ottenendo anche riconoscimenti come il raggiungimento della finale al concorso di Oblique 8×8. Qual è il tuo rapporto con il mondo delle riviste? Pensi che in qualche modo abbia formato la tua scrittura?
Alle riviste sono approdata di recente e in un periodo di tempo abbastanza ristretto (da marzo a luglio 2020), quindi non posso dire che abbiano avuto un’influenza sulla mia scrittura. Tuttavia sono state fondamentali per farmi conoscere e per mettermi alla prova. La verità è che avevo capito di voler scrivere seriamente, e così mi sono detta: se mi prendono, significa che ho qualche possibilità; diversamente, quello che scrivo non interessa a nessuno, e allora non ha senso continuare. Nel giro di qualche settimana ho avuto molte risposte positive, più di quanto non mi aspettassi. Inoltre, grazie a 8×8 di Leonardo Luccone, ho avuto la fortuna di sottopormi al giudizio di editor esperti e sono stata notata da quello che poi sarebbe diventato il mio editore. Consiglio a tutti di partecipare a questo concorso perché, oltre a essere molto serio e prestigioso, offre opportunità molto interessanti, tra cui quella di esordire. Per quanto riguarda le riviste, le ritengo una palestra importantissima, anche perché chi ci lavora (ricordiamo: con grande passione e senza nessun ritorno economico) ha proprio l’obiettivo di scovare nuove voci e talenti.

I ventuno racconti del libro hanno una forte continuità, come se fossero parte di un disegno comune. Come sono nati? Si tratta di una raccolta concepita organicamente o c’è qualche vicenda che caratterizza la selezione dei racconti pubblicati in Neroconfetto?
In effetti è proprio così: ho iniziato a pensare a Neroconfetto come a un corpus unico poco prima che Emanuele Giammarco di Racconti mi contattasse. In quel periodo ero in una specie di stato di grazia dal punto di vista creativo, e le idee arrivavano con grande facilità. Peraltro erano tutte storie dello stesso tipo: direi gotiche, perturbanti. Così, quando Emanuele mi ha chiesto di pubblicare dopo avermi notata al concorso di Leonardo Luccone, non solo ho accettato con grande entusiasmo, ma ho subito esposto a lui e a Stefano Friani la mia idea: una raccolta di racconti gotici al femminile. A quel punto, anche grazie all’intermediazione della mia agente Rita Vivian, a cui sono davvero grata, ho firmato il contratto e ho iniziato a scrivere. Due o tre racconti di Neroconfetto erano già stati pubblicati sulle riviste qualche mese prima, ma la maggior parte della raccolta è nata nei mesi successivi.

Sia in La giacca che in Alice ritroviamo il corpo della donna al centro della narrazione. In un caso è soggetto di sguardi e desideri non richiesti che finiscono purtroppo per essere ben più che soltanto inopportuni, nell’altro sottoposto a giudizio e oggetto di body shaming. Inoltre ho notato che quasi la totalità dei personaggi del libro sono femminili. È un caso o una scelta ponderata quella di riportare il punto di vista delle donne (anche nelle sfumature e derive macabre a cui approdi con alcuni racconti) in maniera tanto predominante?
È certamente una scelta ben precisa quella di relegare i personaggi maschili a un ruolo di secondo piano: penso infatti che il punto di vista maschile sia stato rappresentato a sufficienza non solo in letteratura ma in tutte le arti, e che invece ci sia bisogno di punti di vista e di visioni del mondo che siano esclusivamente femminili. La mia, dunque, è stata una scelta ideologica, ma anche naturale: infatti degli uomini, di quello che pensano o non pensano, delle loro paure e difficoltà quotidiane mi interessa davvero poco. Ho anche scelto di rappresentare quasi esclusivamente l’amore omosessuale proprio perché desideravo approfondire tutti gli aspetti più importanti delle relazioni tra donne: non solo l’amicizia, quindi, ma anche l’amore. I personaggi maschili della raccolta, a ben vedere, sono tutti irrisolti, fiacchi o violenti. Un contorno, mi viene da dire, che però influisce pesantemente sulle vite delle protagoniste (penso a racconti come La Clinica, in cui addirittura il fine ultimo delle donne è quello di appagare l’appetito maschile, o a La Giacca, in cui il desiderio degli uomini si rivela per quello che è, e cioè un sentimento distruttivo; ma anche a La culla, in cui una giovane madre ha dato alla luce una creatura che non riconosce e il marito, invece di aiutarla, se ne frega).
Per quanto riguarda il problema del corpo, c’è poco da fare: in quanto donne, il nostro corpo è sempre stato analizzato, giudicato, soppesato, criticato non solo dagli uomini, ma anche dalle altre donne. Ci facciamo del male da sole, perché purtroppo abbiamo interiorizzato lo sguardo maschile fin da bambine e continuiamo a servirci di quella prospettiva, anche se molte di noi si rendono conto di quanto sia pericoloso e tossico. Fin da bambine, confrontiamo il nostro corpo con quello di nostra madre e poi con quello delle nostre sorelle, cugine, amiche, e ci sottoponiamo a diete e a trattamenti di ogni tipo pur di cambiarlo. Intanto gli uomini occupano tutte le posizioni di potere e se la ridono.

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In altri racconti, come La babysitter e La culla, gli elementi orrorifici diventano più insistenti, anche se sembra quasi che l’orrore non sia chiamato in causa per sconfinare nell’ambito dell’irrealtà ma più per ricreare un’atmosfera psicologica interna ai personaggi. Cos’è per te l’elemento del macabro e in che modo lo impieghi nella tua scrittura?
Per me è tutto interno ai personaggi: della realtà oggettiva, qualsiasi cosa significhi, mi interessa poco. Quello che desidero descrivere è l’universo psichico dei miei personaggi, e in questo senso non faccio sconti a nessuno, neanche a me stessa: come un chirurgo, incido la psiche dei personaggi e affondo il bisturi nelle emozioni più controverse. Mi piace raccontare l’invidia, ad esempio, perché è un sentimento di cui pochi parlano ma che tutti provano. Trovo liberatorio ammettere che dentro di noi si annidino emozioni ambivalenti che ci fanno soffrire (ne La giacca, la protagonista vuole bene all’amica ma allo stesso tempo la invidia e la odia), ma che non vanno giudicate negativamente. Le emozioni non sono di per sé giuste o sbagliate e, se la rabbia o la gelosia non vengono “agìte” facendo del male agli altri, non vedo perché dovremmo sentirci in colpa per il solo fatto di provarle. Siamo umani, in fondo.
Il discorso sul macabro è invece un po’ più complesso, ma è sempre collegato agli aspetti della natura umana che vengono negati o rimossi. Sono sempre stata affascinata dall’idea che un tempo le esecuzioni capitali fossero vissute come un grande spettacolo a cui partecipavano tutti, senza distinzioni. Può sembrare una barbarie, e oggi ci sentiamo diversi, più evoluti, e giudichiamo con disprezzo la curiosità morbosa nei confronti dei fatti di cronaca, naturale evoluzione delle decapitazioni che avvenivano sulla pubblica piazza. Eppure, anche se non lo ammettiamo, un incidente in autostrada attira ancora la nostra attenzione a tal punto da indurci a frenare leggermente (in modo quasi impercettibile, s’intende, per non dare nell’occhio); quando ci tocca andare all’obitorio a visitare la salma di un lontano parente, siamo sopraffatti dall’orrore, eppure nel profondo del nostro animo siamo contenti che per il momento sia toccato a lui e non a noi. La morte l’abbiamo relegata in un angolo, quasi fosse uno spiacevole dettaglio di cui dimenticarsi in fretta, ma dal mio punto di vista non è mai stata così presente come nella società attuale. Oggi sempre di più si muore in ospedale, lontani dai propri cari, magari affidati alle cure di qualche badante che, per pochi soldi, è costretta a non vedere crescere i propri figli. Si muore in ospedale, dicevo, in solitudine, perché guai a interrompere il chiacchiericcio, guai a ricordare ai vivi che la morte fa parte della vita. Il terrore irrazionale nei confronti della morte non è nemmeno più sublimato nella religione, ma è diventato un abisso così spaventoso che è possibile accettarlo soltanto tramite la negazione. Questo scollamento tra vita e morte mi interessa moltissimo, ed è la ragione per cui sono così attratta dal macabro e lo inserisco spesso nelle mie narrazioni. Si tratta da un lato di una sorta di memento mori; dall’altro di un interesse che solo in apparenza può sembrare in contrasto col mio carattere solare. Vivere mi piace, e molto: proprio per questo non sento la necessità di negare la morte, ma anzi desidero indagarla anche nei suoi aspetti più crudi.

Sono stata spiazzata dalla lettura di Camilla, perché lo trovo un racconto intimo, lirico, a tratti anche tenero, che spezza in un certo senso l’angoscia dei precedenti. In alcuni casi, nei racconti ricorrono anche alcuni elementi romantici che caratterizzano queste ossessioni. Come nascono, invece, questi altri tipi di racconti?
L’amore è un mistero che non mi è dato di comprendere e, come tutto ciò che fatico a comprendere, mi interessa moltissimo. Tuttavia ad attirarmi sono, per così dire, le degenerazioni dell’amore. Anche qui, il rimosso e il negato ci vengono in aiuto, come direbbe il dottore viennese. Trovo assai curioso che il sentimento della gelosia, così connaturato alla natura umana, così presente, tanto da essere stato rappresentato in opere straordinarie come Otello di Shakespeare, per citarne una, oggi sia considerato un tabù. Della gelosia (soprattutto della nostra) si parla poco, e soprattutto bisogna fare attenzione a non associarla in alcun modo all’amore, pena l’indignazione generale o addirittura la censura. È tutto un affannarsi a negare le proprie debolezze per mostrarsi perfetti, rispettosi, gentili, onesti. Ma chi se ne frega! Chi se ne frega delle passioncelle tiepide, e soprattutto: a chi volete darla a bere? Gli esseri umani sono meschini, invidiosi, rancorosi, subdoli, violenti. Per tutta la vita non facciamo altro che nasconderci: almeno in letteratura credo che si possa e si debba dire la verità, e cioè che a volte l’istinto distruttivo ha la meglio sulla volontà e sulla ragione. Per il resto, anche l’amore, come la morte, fa parte della vita: il sentimento nasce, cresce, si sviluppa e finisce, anche se ci piace pensare che non sia così. Io non credo all’amore eterno: per questo il matrimonio non fa per me. Apprezzo le coppie libere, senza schemi, anche apertamente infedeli.




Credits:
Illustrazione di copertina a cura di Magda Cicchitti (Behance e Instagram)
Illustrazione di
Valallart

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