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Nel trionfo dell’autofiction i romanzieri sembrano i Ferragnez

Note sulla letteratura che dice io

Non so dire perché ci penso, lo chiedo a me stesso: ma perché ci pensi tanto? E vorrei non pensarci, ma poi la testa, anzi – per essere più precisi – l’immaginazione corre lì: non alla superficie, alla patina del gossip, al titolo che rimbalza nei social, ma alle pieghe fra le notizie, ai vuoti che solo il romanzesco potrebbe riempire. I bambini? Dove hanno passato la giornata? Con le tate? A sera mamma torna da chissà dove – semplicemente un’altra stanza, o l’ufficio – ed è stanca, stravolta, sfatta, comunque un po’ assente, ma fa la vocina, fa le carezze, li manda a nanna e si rituffa nello zampillio di reazioni – cuori cuori soprattutto cuori – all’ultima cruda storia postata su Instagram. Ma, volendo, si può andare indietro nel tempo: immaginare le giornate qualunque in cui sembrava – sembrava – che tutto andasse a gonfie vele, tutto così perfettamente instagrammabile, la sera la notte in cui lei torna a casa con l’odore di un altro addosso, l’alba in cui lui, sfasciato di fumo e alcol, ha estenuato l’eccitazione o lo struggimento per l’altra, eccetera.

Non mi fido troppo di chi snobba il gossip, perché è il vero grande universale collante umano. L’altro giorno un amico mi raccontava di avere fatto un piccolo esperimento: «Nella pausa pranzo mi sono detto: vediamo se arrivo a origliare cinque coppie o gruppi di colleghi che a tavola parlano male o raccontano i fatti di qualcun altro. Tra le 13,30 e le 14,10 sono arrivato a quota otto». Anche chi si vanta di non avere mai comprato i settimanali con le foto dei vip, Chi, Dipiù, Novella 2000, non è, non può essere innocente.
Nella vita che chiamiamo privata siamo piccoli megafoni di gossip, partecipiamo quasi ininterrottamente a un gioco del telefono in cui parliamo degli altri, delle loro vicende, le giudichiamo, le interpretiamo, le glossiamo. Non è una novità: come si dice? Da che mondo è mondo. Né mi sembra così originale ragionare sull’estensione social del gioco del telefono di cui sopra, sulla matrice spiona del Facemash che diventa Facebook, su come ci siamo tutti abituati a contemplare, scrollando, segmenti di vita altrui, più o meno artificialmente – bovaristicamente – recitate, filtrate, editate. Niente di originale, niente di nuovo. Se non per il fatto che, senza averne notizia diretta, ci troviamo a immagazzinare con distrazione fidanzamenti, sfidanzamenti, vacanze, cerimonie familiari e perfino ricoveri. Tant’è.
I fatti altrui sono infiltranti, pervasivi come forse non lo sono mai stati nella storia del mondo; e non c’è bisogno dell’ennesimo editoriale moralistico sul trionfo dell’Io, sull’esibizionismo/diarismo di massa (si chiamava o si chiama “diario” lo spazio offerto da Zuckerberg agli utenti per raccontarsi). Semmai può essere interessante scomodare per questa esorbitante, globale produzione di narrazioni personali la categoria che – facendo un po’ i sofisticati – usiamo per uno specifico genere letterario e editoriale. Autofiction.

autofiction
Gustave Flaubert/DiPiù

Chissà perché non ci è venuto in mente che di questo si trattasse e si tratti. Vent’anni fa su Facebook capitava, su induzione della piattaforma, di scrivere in terza persona. C’è gente che riesce a farlo anche quando parla a voce alta, e in particolare se si tratta dei tronisti di Uomini e donne. D’altra parte, restando in area defilippiana, C’è posta per te – trasmissione che compie, come il secolo in corso, i suoi primi venticinque anni – è la più smagliante maestosa commovente pratica di autofiction “generalista”, baciata ininterrottamente e a tutt’oggi dal 30% di share. Maria fa da ventriloquo e da traduttore ai suoi ospiti, condensa per loro e per il pubblico il piccolo romanzo di una vita, il racconto del Trauma, della Separazione, del Lutto, della Vergogna. E lo fa dicendo “io” al posto di chi si siede davanti alla famosa busta. Autofiction pura!
Assimilabile, almeno nella sostanza narrativa, a quella sempre più prepotente e troneggiante nella produzione editoriale. Non è una novità dell’ultim’ora, questo no; e tuttavia l’altro giorno mettendo a posto diversi romanzi italiani recenti e recentissimi mi è parso che non ci fosse altro. Che, al netto del genere iper-codificato (fantasy, romance, noir, saga familiare su fondale storico), il resto del campo fosse occupato militarmente da storie esplicitamente autobiografiche. I premi maggiori riflettono la tendenza già da un bel po’, fra cinquine e dozzine, ma mi pare – e magari mi sto suggestionando – che ci sia un’ulteriore intensificazione. E mentre un amico traduttore mi raccontava l’impressione che in Francia la febbre stia forse attenuandosi, io ero lì a constatare una temperatura altissima, oltre 39°.

Il punto non è approdare a un giudizio, stabilire se sia un bene o un male questo esubero, ma provare a studiarne le ragioni. Come sempre ci sono libri più convincenti e meno convincenti, alcuni più puramente e talvolta rozzamente testimoniali, o più sofisticati stilisticamente. Alcuni bellissimi, alcuni inutili. Ma forse è arrivato il giorno in cui dichiarare morto o quantomeno seriamente agonizzante quel terreno ambiguo in cui attecchiva certa narrativa “letteraria” e in cui venivano alla luce gli alter ego dei Bellow e dei Roth, quei personaggi che-non-sono-l’autore ma hanno molto a che fare con l’autore.
Sembra che i lettori siano oggi rassicurati da un patto più chiaro: o la finzione-finzione, la finzione estrema, netta, cristallizzata nei suoi codici riconoscibili, oppure la storia vera. “A true story”: sono io che parlo, io che mi confesso, io che metto le viscere sul tavolo. Io che faccio harakiri, io che piango, che mi svelo, mi denudo. Ma c’è di più: l’editoria stessa, che non è un’entità astratta ma certo è fatta di onde e di campi di forza, sembra sempre più volta a pretendere tanto dagli esordienti quanto da quegli autori che una volta scrivevano romanzi “ambigui” che mettano in gioco radicalmente sé stessi, che si raccontino – come si dice? – senza filtri. Nella sonnolenta cittadella intellettuale, come sempre un po’ annoiata, incinichita e rotta a tutto, raramente attenta e stupita, quando l’autore o l’autrice espongono il Grande Trauma sembrano improvvisamente più desti, compiacenti, celebrativi. Più disposti a spendersi, con parole incoraggianti e in modo protettivo, come novelle Maria De Filippi. Apriamo la busta? Oppure: cari scrittori, care scrittrici, vi tocca giocare un po’ ai Ferragnez. Un po’ ridere, un po’ piangere, piangere di brutto, disperatamente, un po’ in mutande, un po’ senza mutande, un po’ la camera da letto, un po’ il cesso, un po’ la stanza di ospedale, un po’ gli psicofarmaci, un po’ il delirio, un po’ le crisi di panico, un po’ i figli che nascono, un po’ il sesso, un po’ la masturbazione, che è pur sempre sesso, un po’ certe avventure extra, un po’ i conflitti familiari, un po’ il fallimento, soprattutto il fallimento, un po’ piangere, di nuovo. The Ferragnez! Ma anche tanti tanti tiktoker tipo (li conoscete?) Davide & Marianna, che mettono in scena i pranzi le cene i cambi di pannolino la gelosia.
Certe carriere non dico in secca ma magari appena illanguidite si sono rinvigorite rapidamente quando quel tal romanzo ha messo sul piatto un dolore “indicibile”, con una scrittura inevitabilmente – l’aggettivo è sempre quello – “potente”. Anche quando non lo è.
Sto dicendo che perfino i lettori di professione, piuttosto intorpiditi, gli addetti ai lavori, distratti e affannati, sentono ormai solo quella nota: l’io che dice io a gran voce, con un dolore che le dà fiato e insieme la spezza, e la rende confidenziale, prossima a tutti nella sua impudenza e qualche volta impudicizia. Non so se si tratti di una piccola rivoluzione del paesaggio letterario, o solo di una evoluzione, un’estensione del memoir, che esiste da sempre come segmento del narrabile, a porzione maggioritaria dell’offerta narrativa.

autofiction
Philip Roth/Maria De Filippi

Trovo tutto questo – a scanso di equivoci – affascinante. Vedo, sì, anche effetti collaterali: un rattrappirsi delle facoltà immaginative degli autori e dunque deduttive dei lettori (il romanzo deduttivo è morto, ha detto per tempo Martin Amis); il rischio che a furia di pescare da sé stessi ci si prosciughi, eccetera – ma mi incuriosisce di più venire a capo della questione. Capire se c’entrano le incertezze dell’epoca in corso: il vecchio critico americano Edmund Wilson diceva che i gialli funzionano in epoche di crisi perché danno sollievo («Il colpevole non sono io!»); e le autobiografie? L’io come unico piccolo possesso?
Meglio evitare la sociologia alla buona e lasciare aperte tutte le domande. Compresa quella sulla maschera della vittima, che più o meno coscientemente e coerentemente tocca indossare quando si esibisce il Trauma. Col vittimismo si vendono libri, ha detto Jovanotti presentando l’ultimo disco e ponendosi come alternativo al trend. Fatto è che nelle storie che a valanga ci arrivano fra le mani si espone un corpo ideale o reale carico di stigmate, cicatrici pronte a riaprirsi, ferite sanguinanti in eterno. I carnefici stanno altrove, nell’ombra o nel regno delle ombre: a ogni modo, nessun postino di Maria li raggiunge per chiedere di porsi in dialettica di là da una busta gigante o di pacificare. L’autofiction in forma letteraria pretende di avere l’ultima parola. Tirannicamente? Sì, ma anche delicatamente. A ogni modo si incarica di fornire una versione dei fatti, di stampare e promulgare quella, senza troppa preoccupazione per le ferite che può aprire o riaprire in altri. Parenti, amici, conoscenti, spesso evocati ovvero strattonati senza esplicito consenso. Il figlio di Lalla Romano chiuse i rapporti con sua madre dopo il libro che lo coinvolgeva, Le parole tra noi leggere. Il cugino di Karl Ove Knausgård protestò con lo scrittore, gli spedì le sue contumelie irridendo anche il titolo dell’imponente romanzo autobiografico, La mia battaglia, e mise per oggetto dell’email il seguente: «La tua battaglia del cazzo».

Quand’è che ci siamo annoiati degli alter ego, dell’ambiguità, della finzione “debole”? Quand’è che abbiamo ceduto al fascino incontrovertibile dei Cazzi Altrui anche al di là dei giornali di gossip (Dagospia non è forse il primo e più trasversale giornale italiano?), al di là della “tv del dolore”, al di là dei social che spulciamo e alimentiamo quotidianamente? Quand’è che abbiamo cominciato a chiedere agli scrittori di smettere di inventare personaggi inutilmente prossimi a loro per indossare la casacca autarchica di personaggi di sé stessi, di smarriti feriti rabbiosi impudichi “Io” da ascoltare come alla grata di un confessionale?
È tutt’altro che inspiegabile il ritrovato successo di Fabrizio Corona, che fa proseliti offrendo a 4 euro e 99 la sua Netflix del pettegolezzo. È un po’ meno ovvio ratificare questa esondante e perturbante, spesso anche persuasiva e di sicuro coinvolgente, marea di “prime persone”.
Applausi al coraggio, o così usa dire. E addio «Madame Bovary c’est moi». Moi c’est moi, e tanto basta.

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