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Nel legame intimo della parola. Le Amatissime di Giulia Caminito



Ogni generazione ha bisogno di confrontarsi con gli autori che l’hanno preceduta, autori distanti nel tempo, ma soprattutto vicini nel tempo. Per una scrittrice poi, cercare una parentela nei libri di altre scrittrici venute prima di lei è, oggi più che mai, indispensabile. Per scoprire quella consonanza, quei modelli, quell’intimità che solo un ritrovato senso di appartenenza può dare, come una lingua madre a lungo repressa o dimenticata. Se è vero che i grandi autori sono, o dovrebbero essere, secondo Virginia Woolf, intimamente, intellettualmente androgini, è anche vero che «nella vita come nell’arte i valori delle donne non sono i valori degli uomini». E rintracciarli, questi nostri valori, nell’opera, nelle biografie, nei luoghi delle scrittrici amate, ci nutre e ci aiuta a superare l’inevitabile rimozione cui ci ha tanto a lungo obbligate l’aver dovuto aderire, dall’inizio dei tempi e della letteratura, ai valori maschili.
Ecco perché probabilmente a un uomo non verrebbe in mente di scrivere “Amatissimi” e a una scrittrice sì: Amatissime (Giulio Perrone) è il giusto bel titolo che Giulia Caminito ha dato a una sua ricerca di se stessa attraverso l’indagine nelle vite e nelle opere di cinque narratrici molto amate sullo sfondo di una città, Roma, generosa o respingente a seconda dei casi. Sono Elsa Morante, Paola Masino, Natalia Ginzburg e le meno note Laudomia Bonanni e Livia De Stefani. Amatissime perché c’è sempre in gioco – nell’interesse che lega una donna intellettuale ad altre intellettuali – un elemento che intellettuale non è, ma sentimentale e carnale. C’è un bisogno di riflettersi e sentirsi accolte, di cogliere somiglianze e intrecci del destino.

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Così a una giovanissima Caminito è capitato di andare a vivere con due amiche in un condominio al quartiere Testaccio, dove aveva abitato anche Elsa Morante e dove c’è una targa che la ricorda. E poi di nuovo si è ritrovata dopo qualche anno a salire le stesse scale per raggiungere una psicanalista che, guarda caso, proprio lì aveva il suo studio. Ma lei, Giulia, lo sa: «Le mie coincidenze non sono altro che volontà, incapacità di lasciare andare». Sì, c’è bisogno di tenerlo in pugno il destino, o almeno provarci. Sottrarsi ai luoghi comuni e seguire le orme di chi ci riconcilia con una parte frivola di noi (ritenuta frivola dalla società che ne fa un sinonimo di femminilità: la passione per i vestiti, per la moda, per i colori e le stoffe da mettersi addosso a rivelare esteriormente come ci sentiamo dentro indossandoli). E così Giulia, che si è data a serissimi studi di filosofia, tenendo nascosti in un cassetto i suoi bozzetti come il desiderio di diventare stilista, ecco che s’imbatte in Paola Masino e in quel suo libro che dà «sapore e ragione» a ogni abito, l’Album di vestiti pubblicato postumo. Che senso di sollievo e di sorellanza. Quante cose può raccontare un semplice vestito, un grembiule rosso o un abito da sposa. E quel mascherarsi a Carnevale da strega invece che da fata! Così arriva il colore nero. Per Masino legato al lutto per la morte del padre, per Giulia legato a un profondo cambiamento verso serietà, impegno, voglia di sottrarsi alla mondanità.
Più o meno quando scopre le potenzialità del colore nero, Giulia si stabilisce a Roma e comincia a lavorare per una piccola casa editrice. «Roma è la città delle mie scrittrici, quelle che più amo, ognuna di loro l’ha attraversata, perché era impossibile non passare da Roma». Natalia Ginzburg ha cominciato a Roma a lavorare in redazione per l’Einaudi nel periodo più buio della sua vita, dopo la morte del marito Leone, e ci è tornata nei primi anni Cinquanta, dopo il suicidio di Cesare Pavese, con il secondo marito, Gabriele Baldini. E forse è proprio Natalia Ginzburg la più amata fra le amatissime. Natalia con la sua tristezza e la sua forza, la sua caparbietà e la sua resistenza. Natalia editor, Natalia scrittrice.

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Natalia Ginzburg, anni Sessanta

Ed ecco la vera sorpresa del libro: fra le amatissime ci sono due autrici che continuano a essere emarginate, rispettate, ma mai centrali. Sono Laudomia Bonanni e Livia De Stefani. Caminito si appassiona a loro con struggente interesse, con determinazione a rimetterle al centro della scena. E la sua curiosità genera quella del lettore. Chi sarà mai questa Laudomia strana già nel nome? «Come funziona questa regola dell’oblio» si domanda Giulia «chi la decide?» Perché questa Laudomia, prima applaudita e onorata dai letterati romani, lei abruzzese, lei della provincia, viene messa da parte fino a farle decidere di non scrivere più? Quante volte ancora dovremo raccontare la sua storia perché il mondo della grande editoria e quello dei lettori si decidano a farle lo spazio che merita? Ed ecco che Caminito va diretta al punto della questione, mettendo a fuoco un romanzo in particolare di Bonanni, l’ultimo prima che decidesse di non scrivere più, La rappresaglia, rifiutato dagli editori, forse per la lettura che fa della Resistenza, non esattamente celebrativa, dei suoi eroi, del suo furore e di una figura femminile sproporzionata per crudeltà, così lontana dalle attese rivendicative delle lettrici di fine Novecento. E infine Livia De Stefani, bella come un’attrice. Giulia ne ricostruisce la biografia, quasi completamente sconosciuta, interrogandone le nipoti. Si lascia ammaliare dalla sua bellezza e da come ogni cosa, ogni superstite manoscritto, lettera, diario che potesse rivelare qualcosa di lei, oltre lei, siano spariti in un grande incendio ideale.
Quello che, in genere metaforicamente, cancella la memoria, le pagine, il ricordo di scrittrici che anche nel più benevole dei destini bisogna combattere per imporre, diffondere, tenere in vita, mentre intorno tutto continua a sparire, tutto un mondo tanto diverso dal nostro e che tanto ancora potrebbe insegnare.

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