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Psicosi o percezione del reale. Moriremo tutti, ma non oggi di Emily Austin

Moriremo tutti, ma non oggi è il romanzo dell’autrice canadese Emily Austin (Blackie edizioni)



Una distrazione al volante, mentre beve un sorso di caffè, e poi il colpo dal lato del bagagliaio dell’auto, gli airbag che si aprono. «Nero. Nero. Nero» è quanto per qualche istante vede Gilda, la protagonista di Moriremo tutti, ma non oggi di Emily Austin, tradotto da Silvia Bonotto per Blackie edizioni. Per una persona che di frequente scambia i propri attacchi d’ansia come principi di infarto, è curioso che Gilda non abbia come primo pensiero quello di recarsi in ospedale: banalmente, non vuole trovarsi al centro dell’attenzione e, per questo, rifugge da situazioni che sfuggirebbero, in linea teorica, dal suo controllo. Non che Gilda abbia grande dimestichezza in fatto di controllo: non controlla la propria vita, lasciandosi andare e trascurando le basilari azioni che un essere umano adotta per la sopravvivenza, come sfamare se stesso, mantenere un lavoro per assicurarsi uno stipendio che consenta il sostentamento quotidiano. Gilda più che altro si lascia vivere, trascinata dalla corrente della propria ansia, di essa succube e vittima.

gilda

A interruzione del cosiddetto viaggio dell’(anti)eroe, subentra, come da manuale, un caso fortuito, l’evento imprevedibile: Gilda ha perso il lavoro, sta barcamenandosi nel vuoto cosmico, alla ricerca di un supporto psicologico; incappa però in una proposta di lavoro, inaspettata e fondamentalmente fuori luogo. Da atea e omosessuale, si ritrova a lavorare per padre Jeff, parroco amorevole e datore di lavoro dissennato (durante il colloquio improvvisato non le chiede nulla, infatti, neppure mezza referenza) che sta cercando una sostituta per le mansioni quotidiane e amministrative della canonica, come occuparsi delle mail, essere di supporto alle attività religiose, e così via. Gilda si ritrova così, inadatta a scegliere, in un microcosmo in cui non aveva previsto non solo di frequentare ma neppure di conoscere. Qui, lei sa, non è ammesso il suo vero io, le preferenze sessuali devono essere taciute, così come le sue credenze in fatto di divinità più o meno storicamente credibili.

La scissione tra la vita all’interno della comunità religiosa e quella al di fuori di essa compromette ulteriormente la sua già fragile salute mentale: non è possibile fare finta che «quella verità» che «mi riecheggia nel cranio come un grido in una caverna» non esista. «Un giorno morirai»: se lo ripete di continuo, come un ammonimento, una presa di coscienza, un fatto inevitabile ma non, come sembra facciano gli altri, lontano da sé. Quella della morte non è un’ipotesi del domani, è una realtà palpabile hic et nunc, che distorce persino il suo sguardo sul proprio corpo, che esiste nello spazio sebbene la sensazione perenne sia piuttosto quella della caduta nel vuoto, che si decomporrà fra 3, 2, 1…

Se da una parte aumentano le situazioni divertenti, assurde e paradossali in cui si trova Gilda e il senso di grottesco prende il sopravvento sulla trama – il mistero di un’infermiera killer che entra prepotente nelle porte della canonica, l’ingresso in scena di un Life Coach uscito dalle peggiori quarte di copertina dei libri self-help –, dall’altro si assiste a un altro crescendo, quello della sua psicosi, che assume forme pericolose e preoccupanti, sebbene nessuno all’infuori di se stessa ne veda i sintomi. È interessante come più la depressione e l’ansia prendano il sopravvento nella protagonista, meno il resto del mondo ne abbia sentore. Di certo non i suoi due genitori problematici, incapaci di affrontare qualsivoglia problema e abituati a far finta di niente, occultando il cadavere della discussione in attesa che arrivi il sereno. Non Elinor, la ragazza con cui Gilda ha una frequentazione intermittente: unica forma di ancoraggio alla realtà per Gilda, neppure Elinor sembra comprendere cosa stia succedendo, il grado di pericolosità che si sta raggiungendo.

Nella crasi tra sketch comici e improbabili che succedono all’esterno della protagonista e lo sgretolamento che si sta verificando all’interno della sua psiche c’è la chiave vincente del romanzo di Emily Austin. La narrazione dello stato depressivo non deve passare necessariamente attraverso episodi senza ritorno. Può essere ammesso un racconto calvinianamente leggero, altrettanto incisivo.


In copertina illustrazione di Joshua Hoehne su unsplash

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