Su Elsa Morante si è detto e si è scritto tanto. Mai abbastanza, forse. O almeno questo è quello che pensano, ne sono sicura, tutti i lettori affezionati che guardano alla produzione dell’autrice non particolarmente sterminata e per questo destinata a esaurirsi fin troppo presto.
Poco male: a rileggere Menzogna e sortilegio all’infinito, si troverebbero infiniti modi diversi per apprezzarlo. Ma chiunque abbia avuto un’ossessione letteraria è in grado di capire perché sia assolutamente necessario, una volta letto tutto quello che è stato scritto dall’autore prediletto, di passare a tutto quello che è stato scritto sull’autore. E questo è già un punto importante per capire perché un’operazione letteraria come quella di Elsa di Angela Bubba (Ponte Alle Grazie, 2022) abbia perfettamente senso.
La struttura del romanzo di Bubba è caratterizzata da una divisione cronologica: ogni capitolo è costituito da un anno – più o meno rilevante per la vita di Morante. In particolare, la storia prende avvio con il 1922 e si chiude con il 1985, anno della morte dell’autrice. Non ci si ritrova, dunque, davanti alla narrazione lineare e ininterrotta di tutta la sua vita.
Tra un anno e l’altro ci sono dei brevi intermezzi, differenziati tipograficamente (con il carattere in corsivo), scritti in prima persona: lì è il personaggio Elsa a prendere direttamente parola, a raccontare di sé attraverso le proprie impressioni e i propri sentimenti.
Se l’andamento episodico e frammentato crea un po’ di difficoltà iniziale nell’immergersi in maniera totale nella lettura, in realtà esso assume un senso e, anzi, aiuta a diminuire il rischio di impressione di narrazione posticcia, ricostruita senza basi. Infatti, è una modalità che non fa mistero del legame fortissimo tra la narrazione e gli eventi reali della biografia di Elsa.
Non possono quindi mancare anni cruciali come il 1936 (il primo incontro con Moravia); il 1938, l’anno del Diario; quelli della guerra, in cui fugge da Roma con l’ormai marito Alberto; il 1957, segnato dalla vittoria dello Strega; o ancora, periodi importanti come quelli della frequentazione di Luchino Visconti prima, Bill Morrow poi.
Disseminati per tutto il testo ci sono, poi, continui riferimenti alla sua produzione letteraria – in maniera non sempre esplicita. Se, infatti, tutti i discorsi legati ad esempio al tema della maternità, presenti fin dal primissimo capitolo/anno, sono facilmente decodificabili, in quanto uno dei temi cardine della narrativa morantiana, lo sono meno riferimenti come «l’uomo dei lumi», la «suora minuta» o l’avere un «alibi» (che ricordano rispettivamente i personaggi dei racconti Il ladro di lumi e Via dell’Angelo e la raccolta di poesie Alibi).
L’immagine di Elsa Morante che salta fuori dal libro è quella di una donna impetuosa, teatrale, dagli istinti forti e irrefrenabili. Intelligente, un po’ caotica, incantevole nella sua essenza. Una donna dal talento indiscusso, ma dai difetti evidenti: è per questo che Bubba cerca di immedesimarsi anche negli altri. Non deve essere stato facile vivere accanto a una persona del genere, e per questo cerca di comprendere cosa potesse voler dire: fa sì che gli altri personaggi, tra tutti il marito, descrivano anche le brutture e i momenti di crisi.
E allora fa urlare al personaggio Alberto Moravia in faccia al personaggio Elsa Morante che lei è un’ostentatrice patologica, che avrebbe dovuto fare teatro; o che a volte la moglie somigli a «un cane rabbioso, dominato dalla smania e dall’emulazione», che l’esagerazione faccia parte della sua natura, e mille altre cose ancora. Quello che si prova a fare, in sostanza, è fornire un ritratto immaginato di Elsa che sia reale, ripreso da diverse angolazioni.
Nella prefazione a Via degli Angeli – di Angela Bubba e Giorgio Ghiotti (Bompiani, 2016) – Sandra Petrignani ha scritto due cose importanti, che ha un senso riportare anche alla luce dell’ultimo romanzo di Bubba e del suo rapporto tra biografia e narrativa: la prima è che «non è così importante stabilire una gerarchia fra vero e falso», la seconda riguarda la ricerca di «“correlativi oggettivi” per dar vita a una magia di stravaganti coincidenze fra la propria psiche ed eventuali accadimenti esterni».
Il modo giusto per leggere Elsa allora, ammesso che esista un modo giusto per leggere qualsiasi libro, è farlo alla luce della volontà dell’autrice di evocare una figura che lei stessa ama profondamente. Angela Bubba sembra un po’ voler condurre amichevolmente per mano il lettore attraverso la vita di questa grandissima scrittrice e farne un ritratto che certo, tenti di basarsi il più possibile sulla biografia reale di Morante, ma che sia anche inevitabilmente di lettura personale.
Un romanzo rimane un romanzo e va letto come tale: eventuali critiche sulla veridicità effettiva di determinate scene andrebbero problematizzate, in quanto non critiche a Elsa in sé, quanto piuttosto al genere stesso cui il testo appartiene.
Tra le molte verità, i fatti ricostruiti possono essere (e sono) finzione narrativa. Non menzogna, piuttosto il sortilegio della letteratura che è in grado di colmare il vuoto dello sconosciuto e inconoscibile.
È proprio così che me lo immagino: un percorso narrativo che colma ciò che non ci è dato sapere, perché non abbiamo vissuto con Elsa, perché non siamo stati Elsa. E questo è fondamentale per capire perché ci sia la dicitura romanzo e perché il personaggio di Elsa sia, appunto, un personaggio, non una scrittrice realmente esistita.
Anche se è innegabile, soprattutto in alcune parti – come nella descrizione del rapporto Morante-Moravia, molto ben riuscito – non riconoscere il fondo di verità, o di quella che pensiamo sia la verità, che sta in fondo alle cose.
«Alberto ha sollveato un braccio e lo agita a desta e a manca. Saluta qualcuno dall’altra parte del locale. “Ci vediamo domani” dice col suo tono baritonale.
In quell’attimo crede d’invidiarlo. Nell’ammirazione dev’esserci per forza un po’ di rancore, una rabbia meccanica fatta di dedizione e affetto, perfino d’amore.
Vorrebbe avere quella spigliatezza. Vorrebbe possedere quella calma anche quando è a casa, riparata dal male almeno quanto dal bene. Vorrebbe quella stessa logica delle emozioni, la loro misura e proporzione perfetta, l’ordine tecnico, quasi plastico. La sua armonia invece è randagia, e il suo equilibrio senza metodo.»