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Massiccio e debordante, una conversazione con Luca Ricci



Luca Ricci è appena tornato in libreria con un libro di racconti, Gotico rosa, edito da La nave di Teseo. È un libro che parla delle ombre dell’amore e che tenta di coniugare due generi letterari distinti: il gotico e il rosa. Ma parlare solo del suo ultimo libro con lui è impossibile, gli piace spaziare da un argomento all’altro, purché si resti dentro il campo della letteratura. 

Se dico la parola autofiction tu pensi a…
Un modo letterario, né più né meno. Una narrazione che ricade a pieno titolo nel campo della letteratura, che però ha un modo di procedere peculiare: usare la vita dell’autore. Il termine è stato coniato solo nel 1977 ma, in fondo, la Divina Commedia non è una splendida autofiction? Il problema non è letterario ma sociale. Oggi l’autofiction è di moda perché viene prodotta da ognuno di noi attraverso i social network, la letteratura è un fatto accessorio, quasi un fenomeno derivativo. Il patto col lettore si è rovesciato: oggi gli scrittori chiedono di non essere creduti fino in fondo, visto che ci raccontano i fatti loro. È abbastanza grottesco.

E tu, ne la Quadrilogia delle stagioni, che patto hai fatto con il lettore? Cosa c’è, in quei quattro romanzi, di estremamente legato alle vite “che sono la tua” – per dirla alla rovescia di Carrère – (e che potrebbero essere quelle di una persona qualsiasi) e cosa c’è di eccezionale, ammesso che questo aggettivo abbia una ragion d’essere…
Ho usato il vecchio patto, voglio essere creduto, proprio perché non parlo dei fatti miei ma invento una serie di storie, verosimili ma immaginarie. Soprattutto ne Gli autunnali, che forse dei quattro romanzi sulle stagioni è il più fantastico, questo antico patto è evidente. E forse non è un caso che, dei quattro, Gli autunnali sia stato il più criticato, cioè quello che ha fatto più fatica a essere accettato e fruito correttamente. Ogni libro di letteratura dovrebbe cercare di essere eccezionale, almeno in qualche suo elemento compositivo. La letteratura attua sempre una esagerazione nei confronti della realtà, per divenire memorabile.

E la trama? Ammetto che c’è qualcosa di sottilmente perverso nel domandare quale sia l’intenzione dell’autore con gli avvicendamenti della storia, però per il lettore la spinta a “voler sapere cosa succede dopo” è ancora (e sempre sarà, immagino) un grande motore.
Non sono né contrario né a favore della trama. Dipende dal libro che stai scrivendo e soprattutto dalla tua poetica. Scrittori sublimi come Franz Kafka o Thomas Bernhard non hanno trame forti, altri come Simenon o Chandler sì. In generale nel Novecento si è esacerbata la distinzione tra scrittori narrativi e scrittori antinarrativi, mentre nell’Ottocento c’era più equilibrio. Scrittori come Flaubert o Dostoevskij raccontano grandi storie senza essere fissati con quel che oggi chiamiamo “turning point”.

Uso una parola a tratti respingente: la ricerca. In altri termini: quando scrivi qual è la tua ambizione? Cosa ti fa dire: “Ci siamo”, oppure: “No, è da buttare, da rifare”. Mi interessa capire il movente della tua scrittura e, in questo, che peso ha la ricerca di una forma più ancora che di un contenuto.
La ricerca dovrebbe essere presente naturalmente in un processo creativo. Cioè non credo nell’esternalizzazione della parola, che in quel caso, e solo in quel caso, diventa brutta, come se lo scrittore dovesse quasi costringersi, forzarsi alla ricerca. La mia ambizione è raggiungere un esito perfetto rispetto all’armonia tra funzionalità ed estetica. Scrivendo molti racconti riesco a illudermi rispetto alla perfezione, perché un racconto è sempre più coeso di un romanzo. In effetti non ha senso parlare di significati e significanti se non in rapporto armonico. In questi anni ho ripreso più volte un racconto appena uscito in Gotico rosa. S’intitola Racconto della pioggia e narra di un adulterio raccontato attraverso diversi temporali. Questa idea mi ha portato a una sintassi fluida, in cui non ci si ferma mai, privata del segno d’interpunzione del punto. Ecco uno dei rispecchiamenti possibili tra forma e contenuto.

Ma quindi: cos’è che genera il racconto o il romanzo? Un’idea come quelle che possono essere attribuite agli artisti contemporanei – hai presente: un titolo folgorante di un’opera, o un concetto ossimorico eccetera – o un’emozione, una visione, una necessità, il desiderio di espressione… o cosa?
Si pensa che ci siano idee buone per il breve e idee buone per il lungo. Ma forse esiste anche l’inclinazione dell’autore che, per la stessa idea, è più propenso a scrivere un racconto o un romanzo. Io quando arriva un’idea penso spesso così: me ne prendo cura e ci scrivo un racconto o la sciupo e ci scrivo un romanzo? Sai, il romanzo funziona per accumulo, quindi l’idea iniziale non basta mai così com’è, così come ti era balenata in testa. Per questo parlo di sciuparla. In realtà a un romanzo non basta neppure una buona idea stiracchiata, in genere ne devi stiracchiare parecchie.

Veniamo a Gotico rosa, di cui ci hai già anticipato qualcosa di Racconto della pioggia. Che tipo di libro di racconti è?
È una collana di perline. Avevo il filo della collana – raccontare le ombre dell’amore – e nel corso degli anni ho continuato a infilare queste perline. Il primo racconto che ho scritto è del 2013, l’ultimo risale a pochi mesi fa. Una decina d’anni per un progetto opposto ai miei primi racconti, quelli modulari e minimalisti de L’amore e altre forme d’odio. È passato un tempo sufficiente per potersi mettere in prospettiva, guardare alla strada percorsa con una certa obiettività. Prima quando scrivevo un racconto mi domandavo: quanto posso togliere? Adesso invece: quanto posso aggiungere?

Dal minimalismo al massimalismo?
Non so se Gotico rosa possa essere ascritto al massimalismo, aggettivo che qualifica una serie di opere anche molto differenti tra loro, di certo è un libro volutamente baldanzoso e scorticato, massiccio e debordante. Ma si tratta pur sempre di un libro di racconti molto rigorosi, che si sporgono sull’orlo dell’abisso amoroso per omissioni, ambiguità, lacune, tutti procedimenti cari all’arte della short story. Ci sono poi i dialoghi che continuo a scrivere sul modello di certo realismo americano. Nel racconto d’apertura che s’intitola Deliquio veneziano c’è una coppia che discute sulla definizione corretta da dare alla colazione appena ordinata – lunch o brunch? – che in verità si sta lasciando. L’oggetto della discussione non è la colazione ma il loro stesso rapporto. In colline come elefanti bianchi di Ernest Hemingway c’è una coppia che, senza mai nominarlo, discute per tre pagine serratissime sull’aborto.

Hai parlato di prospettiva, riesci a vedere come si muoverà la tua scrittura in futuro? La tua voce è ferma e riconoscibile ma i tuoi racconti cambieranno ancora?
Posso solo fare qualche osservazione in merito. Da un paio d’anni ho intensificato la mia scrittura di racconti per i giornali. Da qui, per necessità si potrebbe dire, sono tornato a una dimensione più contratta e stringata, che è comunque diversa da come scrivevo ai miei esordi. È una scrittura che io non devo strangolare, che nasce già strangolata dalla composizione della pagina di un quotidiano. Racconti in cento righe in cui davvero non si può sbagliare neppure una mossa. È una vertigine bellissima, ma non so dove mi porterà. Parlo comunque sempre di amore e scrittura, che poi sono la stessa cosa. Questo binomio è attivo almeno dal 2017, con la pubblicazione de I difetti fondamentali.

In definitiva chi è lo scrittore? E chi è lo scrittore Luca Ricci?
Lo scrittore è un essere umano che pensa e vuol fare pensare gli altri. E lo scrittore Luca Ricci si riconosce pienamente in questa definizione.





Immagine di copertina: dettaglio da Gotico rosa di Luca Ricci, La nave di Teseo

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