Sono molti i personaggi letterari che si prestano ad essere oggetto di studio, di rielaborazione, di riscrittura. Più raramente capita che questo trattamento venga riservato anche a volti pubblici, talmente celebri da essere diventati vere e proprie icone. Marilyn Monroe icona lo era già a trent’anni, ancora in vita, quando la sua stella brillava e il suo talento aveva da forgiarsi. La morte, avvolta da mistero, soggetto di mille teorie divergenti, non ha fatto altro che erigerla a mito assoluto, immortale proprio perché scolpita nel tempo, carica della sua bellezza e avvenenza. Fiumi di inchiostro sono stati scritti, sulla diva, sull’attrice, sulla donna: c’è chi come Joyce Carol Oates ha cercato di dar valore ad ogni momento della vita di Norma Jeane, voce ad ogni pensiero di Marilyn, offrendo materiale prezioso per quel vorticoso, frammentario e dissonante film, incompreso e controverso, che è stato Blonde di Andrew Dominik. Ma perché Marilyn ci piace tanto? Perché in lei ci ritroviamo.
Ed è da questa domanda, forse un po’ troppo retorica, che prende vita e su cui si sviluppa il nuovo lavoro di Filippo Timi, Marilyn, edito da Feltrinelli, che presto sull’onda dei reading e delle presentazioni, potrebbe diventare un nuovo spettacolo teatrale. Un personaggio ricorrente nella produzione di Timi, spesso celato sotto il biondo, l’indole svanita, e il bisogno d’amore di personaggi che portavano altri nomi o incarnavano differenti entità. «Se penso a Marilyn mi viene voglia di salvarla.» confessa l’autore in un’intervista a La Stampa, e anche questo aspetto dell’effetto che fa la diva sul grande pubblico è condivisibile. Tutti siamo Marilyn perché alla ricerca di amore, di attenzioni autentiche, di una comprensione che sa vedere oltre le maschere. Timi la ritrae intenta a vivere a pieno ogni istante possibile con il Presidente degli Stati Uniti, mentre per lui, come sarebbe per ogni uomo sulla faccia della Terra innamorato dell’immagine patinata, è la realizzazione di desiderio capriccioso, di un impulso irrefrenabile, Marilyn (e Norma) sono una scelta che Kennedy non farà, perché non ne vale la pena. Al contrario l’attrice per seguirlo e condividere con lui un segreto di Stato o per augurargli buon compleanno, lascerà che una produzione ritardi di due mesi la conclusione delle riprese. Eppure, questa fragile creatura di vetro, dipendente dai sonniferi e dalla sua maestra e unica vera amica, Pola, riesce ad avere la sua rivincita almeno in ambito lavorativo: Marilyn, consapevole di essere un esperimento, usa ad arte ciò che di lei gli uomini amano, per metterli al tappeto, per strappare dalle loro mani la dignità e l’attenzione che ogni essere umano, anche se ancheggia ed usa litri di decolorante, merita. La Marilyn di Timi lotta per il suo compenso, per avere potere decisionale sui film e sui registi che la devono dirigere – diventa storica paladina e compagna immaginaria delle attrici che oggi scioperano per richieste più modeste, eppure di un peso ancora maggiore – senza lasciarsi intimidire, senza patteggiare o arrivare a compromessi. Presunti capricci che si trasformano in diritti, proprio come quegli atteggiamenti che non sono pose da diva, ma bisogno di avere un senso nella vita, che vada oltre l’indossare la maschera della Signora Monroe.
Nel turbine di eccessi e di riferimenti intertestuali a cui Timi, da sempre, abitua il suo pubblico, spesso facendo del pop la più sofisticata fucina di idee, ci sono anche creature aliene che fungono da coscienza, che, insieme al narratore stesso, avvertono la protagonista, provando a salvarla dal destino ineluttabile a cui va incontro. Creature aliene che non sono altro che lo specchio di tutto ciò che, seppur dentro di noi, ci fa paura, soprattutto quando si teme che possa essere frainteso, filtrato e interpretato da sguardi indiscreti e indelicati. Eppure, la morte della nostra parte aliena, non ci rincuora, ci rigetta, al contrario, in un vuoto ancora più sordo in cui una pillola tira l’altra, fino a quando l’amor proprio, solleticato da una piccola, imprevista vittoria, decide di farsi valere.
Marilyn è un racconto di donne che, seppur lontanissime si schierano contro i maschi supponenti e misogini, comandati e distrutti dall’imponenza delle loro erezioni. Marilyn, Pola e Jackie – Kennedy – creano una forza che merita un riconoscimento che va ben oltre l’Oscar che la Monroe sembra sognare di ricevere – la scena dell’Oscar è presente, seppur con un differente fine anche nello spettacolo Amleto2, dove la bionda diva viene interpretata da Marina Rocco –, un riconoscimento che è per tutte una seconda possibilità nella vita o nel rapporto con la propria coscienza. Cosa sarà di Marilyn, ultraterrena creatura, o cosa ne è stato. Timi opta per l’omicidio, vendetta di Stato, di John, magari anche di Bobby che ha voluto condividere la donna-trofeo con il fratello, e poi c’è un nuovo destino tutto da scrivere perché, anche allontanandoci da Filippo Timi, in molti hanno immaginato, come è stato per l’icona Elvis, un futuro possibile per chi dalla morte non può essere sfiorato: il critico cinematografico Claudio G. Fava, ad esempio, nel 2012, in occasione di quelli che sarebbero stati gli ottantasei anni e i cinquanta dalla scomparsa di Norma Jeane, la immaginava trasferitasi in campagna, madre e massaia che della forma fisica si era disinteressata e che felice con il suo marito italoamericano il cinema lo vedeva solo alla Tv, mentre al Festival di Venezia le si voleva dedicare un premio. Vicino o lontano da una realtà a Marilyn impossibile, la finzione regala futuri, tutti possibili, in cui ognuno di noi – bionda dentro – tiene per mano quella «sorellina», per dirla con Pasolini, il cui vivere procede in parallelo con le nostre rinascite e i nostri successi.
Immagine di copertina: Zelko Radic Bfvrp