Settembre 2023. Dopo alcuni anni di splendido vagabondaggio alle medie inferiori, ho ricevuto il primo incarico d’insegnamento alle scuole superiori, al Liceo Classico Scipione Maffei di Verona.
Uno dei primi giorni varco il grande cancello d’ingresso di via Ponte Pietra che dà sul meraviglioso chiostro interno, le giornate sono ancora calde e soleggiate. C’è una classe, sul lato destro del colonnato, disposta in semicerchio, che ascolta in religioso silenzio un professore intento a leggere non so cosa da un piccolo e vecchio libro. Rallento il passo prima di imboccare l’ingresso che porta verso la portineria, a sinistra, e la sala insegnanti, a destra. Il professore mi ha fatto una strana impressione: un folto capello tendente al bianco che arriva sino a coprire tutta la fronte, un paio di occhiali a mezza lente poggiati sul naso e un altro paio di occhialetti rotondi lasciati a penzoloni lungo la camicia, concentratissimo nella lettura. Ho pensato: “Deve essere un collega di filosofia, una persona coltissima per di più”. Non l’avevo mai visto prima, non sapevo cosa stesse leggendo, non avevo udito una sola parola, ma l’immagine di quella classe completamente assorbita nell’ascoltare la sua lettura me lo ha fatto immaginare così. Imbocco l’entrata e penso: non può essere un collega, alla riunione di dipartimento di qualche giorno prima non c’era. Chissà cosa può insegnare un canuto professore, con un paio di occhiali che sembrano presi dalla scrivania di Benjamin Franklin o dal taschino del conte di Cavour, così magnetico per i suoi studenti?
Questo è stato il primo impatto che ho avuto con Marco Campedelli (ometto il ‘don’ o il ‘professore’, non ho mai capito se gli siano scomodi, gli diano fastidio o semplicemente non gliene importi nulla dei formalismi). Il lunedì successivo finisco una delle prime lezioni in una classe quarta, e fuori ad aspettare la mia uscita mi ritrovo lui. Una voce calma, gentile, rassicurante, saggia. Pochissime altre volte ancora ci siamo incrociati il lunedì fra la quarta e la quinta ora, io sempre troppo in anticipo, lui sempre in ritardo.
Chi è Marco Campedelli? È tante cose, e spesso non si vedono tutte assieme. È narratore, saggista, teologo, grande professore, burattinaio (letteralmente, non metaforicamente). Ma queste sono categorie professionali, maschere pirandelliane. Marco Campedelli è molto di più, è una missione, quella di testimoniare i grandi valori della giustizia e della libertà attraverso ciò che gli riesce meglio: raccontare storie. È un poeta eretico e gentile, un provocatore, un uomo del «giusto dissenso», uno scomodo partigiano fastidiato dall’indifferenza e dall’ingiustizia, ma soprattutto è stato ed è un grande regalo lungo il sentiero della vita, per chiunque lo incontri.
Non sapevo ancora che si sarebbe stretta fra noi una vera amicizia, lentamente, maturata con il tempo. Fatico a capire che cosa di me lo abbia incuriosito, ma abbiamo iniziato a parlare di attualità, di politica e poi dei ‘nostri ragazzi’, delle paure e delle angosce che li attraversano. Ecco, i suoi studenti: l’attenzione, la cura e l’amore che Marco riversa sui ragazzi è commovente, in modo particolare con i più fragili, i più isolati, i più silenziosi, i meno appariscenti, quelli che stanno ai margini. Marco Campedelli incarna laicamente il modello pastorale della cura d’anime, e in questo suo modo di vivere la missione dell’insegnante c’è tutta la sua umanità, c’è la terapia del dialogo e dell’ascolto. Ascolta, Marco Campedelli, ti fa sentire ascoltato.
Un’anima che ha attraversato la sofferenza la sua, un’anima le cui ferite non si sono ancora rimarginate. Un ‘deandreiano’ a tutto tondo, affascinato dalla figura di don Milani, e non è un accostamento venuto per caso: entrambi convinti che in ogni giovane vita vi sia del buono, entrambi convinti del valore fondamentale dell’educazione, entrambi convinti che non vi siano ‘poteri buoni’, entrambi bersagli del potere. Scontrarsi con il potere significa tante cose, significa non accettare di essere «cammelli», avrebbe detto Nietzsche, significa non compromettersi sui valori fondamentali che fungono da bussole per la nostra vita, significa mettersi in discussione, significa rischiare, significa stupirsi e commuoversi per la solidarietà ricevuta da un’intera comunità, ma allo stesso tempo significa vivere consapevoli di aver subito un’ingiustizia, significa vivere la solitudine e l’emarginazione: la propria ‘notte del Getsemani’.
Scrive Marco Campedelli, scrive avendo sempre davanti la missione pedagogica della sua vita: quella di essere un insegnante, scrive per i suoi allievi e per chiunque sappia e voglia ascoltarlo. Qualche mese fa è uscito per Gabrielli editore il suo ultimo libro, si intitola Lessico disobbediente. Parole per una rivoluzione quotidiana, con prefazione di Alex Zanotelli (Gabrielli Editore). In questo lavoro di Campedelli emerge lo sforzo autobiografico di raccontarsi attraverso un vocabolario ragionato, nobile strumento di ogni tempo, dove alcuni termini sono oggi più che mai oggetto di scontro e di volute incomprensioni. Campedelli ci racconta il suo modo di vedere la realtà, la società in cui viviamo, l’attualità, la politica e i suoi pericoli, la persona e i suoi sentimenti per darci uno strumento, una chiave interpretativa che nel suo piccolo ci aiuti a muoverci nella direzione giusta. Questo libro vuole fare chiarezza, vuole sgombrare il campo dalla mala ermeneutica che inquina il dibattito quotidiano, che ambigua le parole e i concetti rigirandoli sofisticamente. Campedelli disobbedisce facendo chiarezza, in modo semplice, scolastico, efficace.
Nel titolo c’è già tutto: l’importanza fondamentale della parola, l’arma più potente fra le armi, salvifica o distruttiva, ma ci sono parole che ci attraversano quotidianamente, parole cariche di significato che spesso vengono usate senza alcuna consapevolezza, senza averne chiara la portata concettuale: anima, costituzione, cultura, fascismo, felicità, guerra, leggere, mediocrità, nostalgia, solo per citarne alcune. E perché questo lessico sarebbe ‘disobbediente’? Perché nelle sue definizioni non si allinea, perché non si omologa e non si conforma, perché prova a dire un qualcosa di diverso e di non scontato, di non banale, perché ci insegna l’importanza di farsi come l’Antigone di Sofocle, disobbedendo al potere per obbedire alla legge dell’umanità, della libertà e della giustizia. La disobbedienza di cui ci parla Campedelli è da intendersi come quotidiana azione del pensiero, della ragione – come diceva Arendt – che deve far riflettere criticamente su quanto ci circonda e ci accade, su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e trovare i mezzi per correggerlo, perché è dietro la mancanza di questa attività di pensiero che si cela l’oscurità, la linfa del male ‘banale’. Ecco perché voglio rimarcare ancora il valore pedagogico ed educativo di questo libro: il pensiero e lo spirito critico vanno scolpiti con l’istruzione, con la cultura, con lo studio, con la curiosità, con l’esempio, solo così si potrà generare una società fatta di persone libere, solo così si potrà giungere al compiersi di una società giusta, di una politica giusta e per tutti.
E cosa significa ‘rivoluzione quotidiana’? Le parole sono generative di rivoluzioni, le parole sono il primo motore di ogni azione e vanno difese, vanno protette, vanno custodite, ma soprattutto vanno dette e spiegate. Non ci nascondiamo: questo è un testo militante, è un progetto politico che ci grida l’impossibilità berlingueriana di separare l’etica dalla politica. Tutto è politico, e Campedelli lo sa bene. Questi tempi bui necessitano di militanza, di impegno partecipato, ma prima di tutto di chiarezza concettuale. Occorre fare chiarezza perché è nell’ambiguità che serpeggia il virus. Quindi tutto deve partire dalle parole, e le parole nascono sempre da una relazione, da un confronto con gli altri. La parola è sempre un dialogo, oltre che essere figlia di una storia.
«Quando si manganella la libertà, scendono in piazza le parole, nude, impotenti, limpide. Sono la resistenza alla banalità. Le parole sono vere se sono diventate erba, corteccia, radici. Sono vere se siamo diventati noi stessi, alla fine, queste parole. […] Parole esiliate se noi lo siamo stati, libere se noi lo siamo. Saranno le parole la nostra resistenza amorosa. Nessuna guerra le distruggerà perché continueranno a rinascere» [1]
Lo scorso 30 maggio, è stata ricordata nell’aula magna del Liceo Maffei la figura di Giacomo Matteotti. Avevo da qualche giorno iniziato la lettura del libro di Campedelli e la sera precedente, poco prima di addormentarmi, mi capita di arrivare alla parola fascismo. Il giorno seguente ho voluto chiudere il mio intervento – un parallelismo fra le vicende biografiche di Gaetano Salvemini e Giacomo Matteotti – riportando le sue parole:
«La parola fascismo è una parola amara. Ha il gusto del sangue, le cicatrici della violenza. È una parola che pesa sul cuore. Una parola che in Italia si era presa tutto lo spazio. Fascismo significa per noi il precipitare di centinaia di migliaia di giovani nel baratro della guerra. Fascismo è la vergogna delle leggi razziali. È l’eclissi della libertà. Oggi questa parola ritorna. Non solo nei vocabolari. Ritorna nelle azioni. Nel modo di pensare. È il fascismo dentro la testa che fa paura. Avvelena i pensieri e brucia le parole differenti, toglie le ali. […] Il fascismo cerca di tradurre il proprio disordine morale in un ordine sociale che legittima la discriminazione, azzera le differenze, promuove la violenza. Così occupa gli spazi della democrazia. Preoccupa il fascismo che è in noi, che ci spinge, come diceva Fromm, a fuggire la libertà e ad affidarsi a un capo».
Questo libro è un manifesto di umanità, una virtuosa scossa elettrica per le coscienze sopite, che non lascia indifferente chi lo legge, commovente in alcuni passaggi per la sua sincerità, per la sua trasparenza. Questo libro è un esercizio di democrazia, di dissenso e di libertà, è uno spazio aperto e rigenerativo, nato dentro il luogo più bello che esista al mondo oggi: quello di una scuola, casa del pensiero, dello spirito critico e della parola.
Che cosa insegna quel ‘canuto professore’? Insegna a essere umani, insegna a tener sempre viva la coscienza. Nel tempo dell’evaporazione della «parola del padre» – come dice Massimo Recalcati –, Marco insegna affiancando alla parola la testimonianza, portando il suo esempio, restituendo gli insegnamenti delle figure a lui più care – don Lorenzo Milani, Alda Merini, Eduardo De Filippo, Sandro Pertini, Enrico Berlinguer – insegna avendo come centro gravitazionale il concetto di humanitas, di comprensione nei confronti di chi riconosciamo come nostro simile, insegna a non essere indifferenti:
«Insegna a chi si affaccia alla finestra della vita e non ha bisogno di dita puntate su certezze dogmatiche o risolutive, ma cerca un braccio a cui reggersi se vede l’abisso sottostante, uno sguardo a cui appellarsi se non trova riferimenti, una voce di tenerezza nello smarrimento, un sorriso di incoraggiante umanità di fronte ai bivi» [2]
Marco Campedelli insegna, come ha detto una volta una sua allieva, «a coltivare l’anima».
Immagine di copertina: Jean-Joseph Benjamin-Constant, Antigone presso il corpo di Polinice, 1882, olio su tela
[1] M. Campedelli, Lessico disobbediente. Parole per una rivoluzione quotidiana, Gabrielli Editori,
[2] Testo in difesa di Marco Campedelli scritto dai professori del Liceo Scipione Maffei di Verona in occasione di manifestazioni di solidarietà della comunità studentesca al docente nella tarda primavera del 2022.