Katharina Thaler ha dieci anni. Vive con mamma e papà in un maso dolomitico. Fin dai primi respiri di questo romanzo, ci troviamo nel mezzo di una piccola comunità alpina, nella Ladinia: questo contesto geografico, è la poetica del racconto che si svilupperà, perché i ladini non sono una “minoranza” qualsiasi. Alla vigilia della Grande Guerra, vivono sotto il governo austro-ungarico, con la loro cultura, la loro lingua, la loro grammatica, i loro valori. E le loro superstizioni.
Soffermiamoci però sulla Ladinia, che presto diventerà teatro del fronte dolomitico: una regione storico-geografica che include cinque valli di lingua ladina. Valli a tutti ben note in epoca moderna per la loro attrattiva turistica: Val Badia, Val Gardena, Val di Fassa, Valle d’Ampezzo e l’areale di Katharina, detta Tina: la Valle di Fodóm. In questo contesto le pagine diventano tridimensionali, Righetto è uomo adottato dallo spirito della montagna e sa rendere semplice ciò che è difficile: rendere verosimile una storia evitando di adulterare il tessuto narrativo, lasciando che siano le trame geografiche e naturali, la spiritualità “indigena” di Tina, a dare ritmo al racconto:
«Si disse che la meraviglia degli animali selvatici stava in questo: che sono loro a decidere se e quando incontrarci, per un solo istante che è una rivelazione. Quando si va per boschi, montagne, dirupi, magari noi non li scorgiamo, eppure loro ci sono, sono sempre presenti e osservano ogni movimento dell’uomo. Sanno dove siamo e cosa facciamo. Percepiscono la nostra presenza, ci fiutano, ci seguono come ombre, da vicino o da lontano. Allo stesso modo dei morti e degli spiriti della foresta.»
Questo passaggio è il respiro della bambina costretta alla solitudine da un evento difficile da interpretare per i valligiani, strutturati dalla religione e dal sistema educativo per emarginare tutto ciò che è diverso. La ragazza cresce emarginata, perde il padre, diventa donna, si occupa della madre. Ma soprattutto, ascolta la voce universale, cosmica, della natura alla quale tutti apparteniamo – o apparterremo – e vive dei valori più grandi delle meschinità umane. Ha coraggio e segue quella traccia tenue, ma ben visibile a chi non vuole recidere il legame più grande – a chi è consapevole di essere una forma della Terra, non una padrona. E lo fa affrontando le difficoltà enormi imposte dal periodo storico.
Il sentiero selvatico (Feltrinelli) è il nuovo romanzo di Matteo Righetto: esce undici anni dopo La pelle dell’orso, opera che diede il via a un percorso capace di evitare la montagna immaginaria, inserendo con dosaggi “esatti” emozioni e percezioni, che si tramutano in conoscenze tradizionali e intuizioni personalissime dei giovani protagonisti di quello e di questo romanzo, capaci di farci vedere le origini di un’idea ecologica quando questi concetti ancora non erano stati codificati, ma vivevano nel più profondo essere di spiriti liberi e menti sensibili. Ecco perché la montagna è Essere, non Avere: “personaggio” e “scenario” avvolgente, onnisciente, inclusivo e nel contempo carico di mistero, rischio. Insomma, Vita che scorre potente. La geografia diventa poetica se respirata con gratitudine, e la scrittura di Matteo coglie tutto ciò. I paesaggi interiori si dispiegano mentre quelli del paesaggio raccontano percorsi e cicli dai quali apprendere tutto. Si vede bene in controluce la filigrana che va oltre, lo spirito ritroso, ma loquace. Per chi sa e vuole ascoltare.
Cito due opere (non le uniche, in mezzo abbiamo per esempio la “trilogia della Patria” pubblicata tra il 2017 e il 2019 da Mondadori) ambientate nei paraggi delle guerre mondiali e nelle quali il rapporto tra figli e genitori è un albero secolare, imponente, ingombrante anche, ma i cui anelli rivelano storie scolpite nel DNA, e dal quale germogliano fioriture diverse, e scelte difficili.
La vicenda di Tina è una lama che intaglia parole profonde e imprime nella mente le percezioni di una piccola donna già costretta a crescere in fretta dal suo contesto geografico e poi dalla guerra. È che Righetto riesce a far diventare idee e situazioni tasselli che combaciano spesso con l’attualità: lì a Larcionèi, la geografia si anima, gronda pioggia e neve, esplode luci e ombre, rilascia fioriture interiori e riavvolge il nastro della conoscenza ancora acerba che opta per superstizione e ignoranza, come accade oggi quando si parla di Lupo. Perché è la percezione di questo animale totem a portare Tina sul sentiero selvatico; lei vede coi suoi occhi la cattiveria gratuita e l’ignoranza, la perdita del legame con la montagna come grembo, la crudeltà gratuita che la fa definire “strega” a dieci anni. Tutto ciò mentre scopre una fossa gigante nella quale i “paesani” gettano con disprezzo i cadaveri di tutti i lupi ammazzati per “liberare” la montagna. Tutti, tranne una lupa. E così le due vite parallele finiscon per ritrovarsi nel più profondo e selvaggio cuore del monte di Tina, il Pore, facendosi semplicemente Vita. Apparizione di segnali di saggezza e relazione. Comprensione profonda delle trame che la natura ci offre ogni giorno.
Come ogni opera di valore, destinata a durare, Il sentiero selvatico è una semina che si insinua come la pioggia sottile e incessante nel profondo cuore di ogni terreno che sia ancora fertile, in questo caso la terra del nostro immaginario. Semi che si attaccano come spore buone ai sentimenti, grazie alla scrittura di Righetto che sa indirizzarne i germogli, così imprevedibili, diversi, tenendo conto dell’esposizione avuta da ogni lettore al mondo. Non serve essere innamorati della montagna, del lupo, della Storia. Occorre solo leggere lasciandosi condurre dal flusso per capire che ognuno di noi ha il suo fiume, la sua foresta, il suo lupo. La propria Madre Terra e, soprattutto, un sentiero selvatico in attesa di essere imboccato perché come accade a Tina, nell’incontro con l’anziana Hilde durante il conflitto, «la sacralità della meta risiedeva nel viaggio che a essa conduceva».